Riscaldamento globale: intervista agli esperti – parte 3

Cambiamento climatico: eccoci alla terza puntata la mini-serie di interviste dedicata all’argomento. In questa puntata intervistiamo il dottor Filippo Bonaventura, amministratore della pagina Chi ha paura del buio?.

Ecco i link alla prima parte e alla seconda. Ma iniziamo subito con le domande a Filippo Bonaventura:

1. Parlaci del tuo lavoro e della tua formazione

Sono laureato in astrofisica e ho un master in comunicazione della scienza. Mi occupo di divulgazione scientifica ed editoria scientifica.

2. Quali sono le differenze tra climatologia e meteorologia?

È come la differenza tra umore e carattere. Oggi posso essere di umore gioioso, domani magari più cupo. L’umore cambia rapidamente, a seconda degli eventi contingenti. Il carattere invece è più stabile nel tempo, evolve lentamente nel corso della vita e sostanzialmente non dipende dai dettagli di ciò che mi succede qui e ora. Possiamo intendere il carattere di una persona come una “media” del suo umore su un arco temporale molto più lungo di quello in cui avvengono tipicamente le variazioni di umore.
Allo stesso modo, la meteorologia riguarda i fenomeni atmosferici che avvengono “qui e ora” mentre la climatologia si occupa di darne una descrizione nel lungo termine. Se vogliamo, la climatologia studia quali sono le tendenze delle condizioni atmosferiche in un certo arco di tempo.

Spesso si confondono le due cose, ma è un grave errore. Avendo orizzonti temporali così diversi, le due discipline assolvono anche scopi differenti. La meteorologia è utile per prevedere che tempo farà domani a Milano o a Roma, ma se vogliamo risposte di tipo statistico, per esempio se gli uragani aumenteranno di numero nei prossimi 50 anni o se il pianeta si sta scaldando, ci rifaremo alla climatologia.

3. Cosa dice la tua disciplina a proposito del cambiamento climatico?

La mia disciplina è l’astrofisica e non ha molto da dire sul cambiamento climatico, se non indirettamente. Per esempio, le variazioni cicliche dei parametri orbitali terrestri possono provocare cambiamenti climatici lungo archi temporali molto lunghi, che vanno dalle decine alle centinaia di migliaia di anni. Anche le variazioni nell’attività solare possono influenzare il clima terrestre. Sappiamo però che nessuna di queste forzanti è in grado di spiegare l’aumento della temperatura media del pianeta che abbiamo osservato nell’ultimo secolo e mezzo.

La climatologia è molto chiara a riguardo: oggi siamo a circa +1 °C rispetto al periodo preindustriale e l’unica forzante in grado di spiegare un aumento così ingente in un lasso di tempo così ridotto è l’emissione antropica di gas serra, in particolare anidride carbonica. Certamente il clima può cambiare anche senza l’intervento umano, anzi l’ha fatto moltissime volte in passato, ma i dati in nostro possesso sono inequivocabili: questa volta siamo stati noi a scaldare il pianeta.

4. Ci sono diatribe in corso su questo argomento, nella comunità scientifica?

Assolutamente no. Il consenso della comunità internazionale dei climatologi, dopo decenni di studi, è plebiscitario: l’origine del riscaldamento globale attualmente in atto è antropica. Sono stati effettuati studi scientifici sul consenso dei climatologi attorno a questa tesi: la compattezza dei ricercatori si attesta tra il 97% e il 100%. Sono davvero pochissimi gli articoli scientifici che espongono risultati in controtendenza, e quasi tutti sono stati pubblicati su cosiddette “riviste predatorie” (cioè che pubblicano in cambio di soldi e senza effettuare peer-review), oppure mostrano risultati non riproducibili (dunque non validi da un punto di vista del metodo scientifico), oppure hanno per autori scienziati con affiliazioni ambigue (per esempio compagnie petrolifere).

Questo per quanto riguarda la comunità dei climatologi. Se ci allarghiamo alla comunità scientifica in generale abbiamo più variabilità, ma dobbiamo tenere conto che l’autorevolezza di uno scienziato crolla quando si occupa di un campo che non è il suo. Nella scienza non vale il principio di autorità. Il fatto che quasi tutti gli scienziati che rigettano la tesi del riscaldamento globale antropico non sono climatologi significherà pur qualcosa, no?

5. Si sente parlare spesso di un gruppo di scienziati che ha scritto una lettera aperta che smentirebbe il legame tra attività umana e cambiamento climatico. Chi sono queste persone, quali le loro affermazioni e che prove ci sono a sostegno di queste?

È circolata nello scorso anno in Italia una petizione contro la tesi del riscaldamento globale di origine antropica, che è sostanzialmente un copia-incolla di una petizione internazionale promossa precedentemente. I firmatari delle petizioni sono scienziati e accademici, per la quasi totalità che si occupano di campi diversi dalla climatologia, e questo già di per sé è un indice della loro scarsa autorevolezza sul tema. In Italia i nomi di spicco del cosiddetto “negazionismo climatico” sono Antonino Zichichi, Franco Prodi, Nicola Scafetta, Franco Battaglia e altri. Sono scienziati con un curriculum più che rispettabile e con un certo carisma mediatico, pertanto risultano autorevoli e affidabili soprattutto a chi non è del settore. Ma le loro affermazioni sono scientificamente scorrette e facilmente smontabili in quanto non supportate da alcuna prova.

I punti chiave della petizione dello scorso anno sono legati alla presunta impossibilità per l’uomo di governare il clima. Si dice in particolare che l’azione antropica sul clima è puramente ipotetica (quando sono migliaia gli studi che dimostrano il contrario), che i modelli non riproducono i trend osservati (mentre c’è un ampissimo accordo tra modelli e dati e anche tra i vari modelli) e che la variabilità climatica naturale è sottostimata. Le prove a supporto sono frutto di cherry-picking oppure palesemente scorrette. Per esempio, usare il mito della “Groenlandia verde” in epoca vichinga come argomento contro il riscaldamento globale antropico è molto grave, dal momento che la Groenlandia è ghiacciata da circa 150.000 anni. Usare il periodo caldo romano o quello medievale per dire che il riscaldamento globale in atto non c’è o rientra nella variabilità naturale non può che denotare ignoranza oppure malafede, perché quei periodi caldi non erano globali ma limitati alla regione europea. Lo stesso vale per l’argomento secondo cui Annibale attraversò le Alpi con gli elefanti e dunque oggi non può fare più caldo di un tempo: se si vuole confutare il riscaldamento globale bisognerebbe come minimo usare argomenti globali, non aneddoti locali.

Il fatto è questo: se i promotori della petizione avessero prove solide a sostegno delle loro affermazioni, le pubblicherebbero su riviste scientifiche autorevoli e peer-reviewed, invece che sotto forma di petizione.

Il punto non è che queste persone hanno torto su quanto affermano, ma che le loro affermazioni scorrette inquinano e deteriorano il dibattito pubblico – già complesso di per sé – su un tema estremamente delicato e da cui dipende buona parte del futuro nostro e delle prossime generazioni.

6. Quanto dei contenuti del messaggio di Greta Thunberg è scientificamente corretto?

I contenuti scientifici di Greta Thunberg sono corretti. Questo non perché Greta abbia particolari competenze scientifiche, ma perché riporta quanto affermato nei rapporti ufficiali dell’IPCC, che è il pannello intergovernativo sul cambiamento climatico indetto dall’ONU. Per l’IPCC lavorano su base volontaria migliaia di climatologi di tutto il mondo, analizzando meticolosamente la letteratura scientifica sull’argomento e stilandone dei report dettagliati. I report IPCC rappresentano lo stato dell’arte della conoscenza climatologica e Greta ne fa da portavoce.

Va notato che i climatologi stanno mettendo in guardia la sfera della policy da decenni, ma non sono stati ascoltati a sufficienza, per diversi motivi. Da questo punto di vista l’attività di Greta Thunberg sta contribuendo enormemente a sensibilizzare la popolazione, soprattutto quella più giovane, su un tema che non può più essere ignorato o preso sottogamba.

7. Quali misure può prendere la politica per migliorare la situazione?

Questa è una domanda fondamentale alla quale però nessuno ha al momento una risposta soddisfacente. Sappiamo che il problema è la CO2, quindi l’obiettivo ultimo è sicuramente diminuire la quantità di questo gas serra in atmosfera. Secondo le previsioni, se non faremo nulla supereremo la soglia di sicurezza nel 2040, che è praticamente dopodomani. Questa soglia, stabilita dall’IPCC, è +1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale. Stando ai dati e ai modelli, per superarla dovremo arrivare a emissioni zero entro il 2050, e anche – come se non bastasse – trovare il modo di assorbire parte della CO2 che abbiamo in atmosfera. Se questo non vi spaventa, sappiate che dovrebbe farlo. Per come è organizzata la nostra società, emissioni zero significa ripensare completamente le attività industriali e produttive, i trasporti, il consumo di carne e altri aspetti centrali delle nostre vite. Va ripensato l’intero sistema, e nessuno a oggi sa come fare. Sicuramente non c’è la “pillola magica”, la soluzione unica e definitiva che risolverà tutto in un colpo solo. Poiché il problema è complesso e globale, la soluzione dovrà necessariamente essere altrettanto complessa e globale. La politica non può risolvere il problema se non in modo transnazionale e in costante dialogo con la comunità scientifica.

Da un punto di vista pratico, quello che la politica può cominciare a fare da subito è promuovere lo spostamento della produzione di energia a modalità meno impattanti dal punto di vista delle emissioni equivalenti di CO2 e promuovere urgentemente lo sviluppo di tecnologie per l’assorbimento ed eventualmente per lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Al momento l’unica tecnologia di assorbimento della CO2 di cui disponiamo è… la vegetazione.

Si può agire inoltre sugli effetti del riscaldamento globale, oltre che sulle cause. Proteggere le zone costiere minacciate dall’innalzamento del livello dei mari, riorganizzare la produzione agricola con colture più adatte alla nuova situazione climatica, facilitare le inevitabili migrazioni delle tante specie animali che dovranno spostarsi alla ricerca di habitat più idonei.

C’è ancora molto da fare, e il tempo è poco.

8. Cosa potremmo fare noi singoli in prima persona?

Possiamo fare molto, e possiamo fare poco. Possiamo fare molto perché anche un piccolo gesto, moltiplicato per miliardi di individui, può fare la differenza. Usare i mezzi pubblici invece che l’automobile, rinunciare a volare quando possibile, aggiustare anziché comprare, evitare gli sprechi nell’uso del riscaldamento, dell’aria condizionata, ridurre l’uso di plastica e il consumo di acqua, coibentare la propria abitazione, installare se possibile pannelli solari sono tutte scelte alla nostra portata e che portano vantaggi a noi stessi in primis anche senza considerare l’aspetto ambientale.

Possiamo fare poco perché tutte queste azioni non possono bastare da sole a risolvere il problema. C’è bisogno di un’azione politica globale che purtroppo però ancora manca. L’accordo di Parigi è stato firmato già cinque anni fa, ma la sfera politica non sta manifestando l’urgenza che sarebbe invece necessaria di fronte a un’emergenza climatica senza precedenti. Per questo motivo l’azione più importante che noi cittadini possiamo intraprendere è fare pressione sulla politica. Organizzarci per fare capire ai politici che non li voteremo se non metteranno la crisi climatica al centro del loro piano di azione, insieme a un cambiamento collettivo del nostro stile di vita, è quanto di più efficace possiamo fare per contribuire alla risoluzione del problema.

9. Nei dibattiti si fa spesso confusione fra “effetto serra” e il problema del buco nell’ozono. Sono due fenomeni in qualche modo correlati? In cosa consistono?

Sono cose completamente diverse. L’effetto serra è l’aumento della temperatura del pianeta provocato dall’assorbimento e la riemissione di radiazione solare da parte di alcuni gas presenti in atmosfera, come l’anidride carbonica. È un fenomeno naturale e di grande utilità: senza di esso la temperatura media terrestre si attesterebbe sui –18 °C invece che sugli attuali 14-15 °C, e difficilmente la Terra sarebbe abitabile. Quello che sta facendo l’uomo è aumentare l’intensità di questo effetto innalzando il livello di gas serra in atmosfera, soprattutto attraverso la combustione di petrolio, carbone e metano. È il meccanismo attraverso cui avviene il riscaldamento globale antropico.

Il “buco nell’ozono” è invece un fenomeno del tutto artificiale e non direttamente legato al clima. Consiste nella riduzione dell’ozono presente nella stratosfera soprattutto antartica, dovuta all’emissione antropica di clorofluorocarburi (CFC), molecole che si legano all’ozono stratosferico scindendolo. Questo è un problema perché l’ozono assorbe buona parte della radiazione ultravioletta proveniente dal Sole, che è pericolosa per i viventi. La messa al bando dei CFC ha mitigato sensibilmente il problema.
La radiazione non schermata è troppo poca per produrre effetto serra, quindi il buco nell’ozono non può essere responsabile del riscaldamento globale in corso. Le variazioni di ozono antartico possono influenzare il vortice polare e di conseguenza il clima della regione, ma a parte questo il collegamento tra le due cose è molto indiretto.

10. Come mai l’uomo ha un impatto così grande? In quali periodi storici è stato raggiunto questo livello di CO2 e cosa comporta in termini ambientali?

L’impatto dell’uomo è dovuto alla grande quantità di anidride carbonica emessa in atmosfera, che si aggira sulle 40 miliardi di tonnellate annue e non accenna a diminuire. Negli ultimi decenni questo valore è cresciuto in modo assolutamente inedito nella storia umana: appena mezzo secolo fa l’emissione di anidride carbonica è addirittura quadruplicata. Come risultato, la CO2 in atmosfera è passata globalmente da circa 280 ppm (parti per milione) in epoca preindustriale alle attuali 412 ppm, valore mai raggiunto nell’ultimo milione di anni. È un aumento davvero significativo, soprattutto in un lasso di tempo così ristretto. L’analisi dei dati esclude che la causa di questo aumento sia naturale (per esempio le eruzioni vulcaniche) e conferma che sia dovuto all’attività umana.

Un aumento di questa portata e così rapido ha un impatto maggiore di quanto si può credere a prima vista. Gli effetti cominciano già a vedersi: aumento del numero e dell’intensità delle inondazioni, delle maree eccezionali, dei fenomeni meteorologici estremi, inasprimento dei periodi siccitosi e tendenza alla desertificazione, acidificazione degli oceani, alterazione degli ecosistemi e riduzione della biodiversità terrestre e marina sono tutte conseguenze del riscaldamento globale di cui vi è già conferma. La situazione è destinata purtroppo a peggiorare, e le conseguenze sociali saranno enormi e inevitabili se manterremo lo status quo. La produzione agricola entrerà in crisi nelle regioni del mondo più calde (quindi a rischio di desertificazione), soprattutto se rivierasche. In molte di queste regioni vivono popolazioni in regime di sussistenza: fame, malattie, morte saranno una realtà da cui fuggire, con il rischio di generare migrazioni climatiche che potenzialmente possono interessare centinaia di milioni di persone. Ma è un rischio anche nostro: una crisi agricola potrebbe impoverire il sud del nostro continente, destabilizzando politicamente l’intera Unione Europea. I nostri figli potrebbero essere costretti a migrare nel nord Europa, dove potrebbero non essere bene accetti. In altre parti del mondo civilizzato, le regioni interessate da uragani e altri fenomeni meteorologici estremi (penso ad alcune zone statunitensi o indiane) potrebbero diventare inospitali. Gli stati di emergenza e i disastri sempre più frequenti peserebbero gravemente sulle casse statali oltre che provocare vittime e gravissimi disagi per la cittadinanza.

Per ora sono tutti scenari ipotetici, ma le previsioni sono chiare: tutto questo potrebbe accadere nell’arco delle nostre vite e colpire duramente le prossime generazioni.

11. Un effetto del riscaldamento globale di cui si sente parlare spesso è quello della “acidificazione degli oceani”. Di cosa si tratta e che conseguenze ha sugli ecosistemi e sulla vita?

Gli oceani assorbono CO2, e ne assorbono molta. Parliamo di oltre il 25% dell’anidride carbonica presente in atmosfera. Questo aiuta molto a tenere a bada il riscaldamento globale, intrappolando la CO2 dove non può provocare effetto serra, ma ha un grave effetto collaterale. Negli oceani, infatti, l’anidride carbonica reagisce chimicamente dando origine ad acido carbonico. L’acidificazione degli oceani consiste appunto nell’aumento della concentrazione di acido disciolto nelle acque.

Questo rappresenta un problema perché altera profondamente gli equilibri degli ecosistemi marini, che sono particolarmente sensibili al pH. Per esempio, un aumento di acidità ostacola la formazione e il mantenimento dei gusci per tutti quegli organismi che ne sono dotati. Questo è particolarmente evidente nelle barriere coralline, che sono in grave sofferenza soprattutto in Oceania, ma impatta anche sul plancton, che è alla base della piramide alimentare. Questo ovviamente innesca un pericoloso effetto domino in tutta la popolazione marina. L’acidificazione cambia anche gli equilibri tra specie vegetali e specie animali che vivono negli oceani.

12. La soluzione proposta da Greta Thunberg di piantare alberi può funzionare?

L’argomento è dibattuto perché non è così semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Bisogna ribadire innanzitutto che qualunque intervento singolo possiamo immaginare non può bastare a risolvere il problema. Gli alberi possono aiutare però, perché sono grandi assorbitori di anidride carbonica: la vegetazione assorbe oltre il 30% delle emissioni antropiche. Tuttavia, la copertura forestale e boschiva provoca una diminuzione dell’albedo terrestre, cioè della capacità di riflettere la luce solare.

Questo comporta un maggiore assorbimento di radiazione e dunque di calore. I modelli indicano che negli ultimi decenni la deforestazione, da sola, possono provocare anche una diminuzione netta della temperatura media del pianeta. Questo raffreddamento avviene su una scala temporale differente da quella del riscaldamento dovuto al mancato assorbimento di anidride carbonica, quindi i due effetti sono in competizione e non è chiaro quale dei due prevalga nel breve e nel lungo termine. Personalmente credo che aumentare la vegetazione rimanga una pratica vantaggiosa, ma va fatta in modo ragionato: non possiamo sapere con certezza come le piante potranno rispondere al cambiamento climatico che ci aspetta.

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