Focus: disinformazione “Live”

Quando certi eventi di divulgazione scientifica rappresentano una minaccia per il progresso della ricerca

L’obiettivo principe della divulgazione scientifica dovrebbe essere avvicinare il pubblico alla scienza rendendolo partecipe di quello che quotidianamente i ricercatori scoprono nei laboratori di tutto il mondo. Ed esistono argomenti cruciali molto delicati in cui questo diventa essenziale, come la sperimentazione animale. Esiste infatti una tendenza da parte di alcuni individui che non condividono eticamente questa pratica a fare disinformazione in ambito scientifico.
Cosa succede quando chi dovrebbe occuparsi di divulgazione scientifica promuove quest’ultima condotta?

Il 23 novembre 2019 presso Focus Live: al Museo della Scienza e della Tecnica a Milano, la dottoressa Francesca Pistollato, biologa del Joint Research Centre della Commissione Europea di Ispra (Varese) ha tenuto un talk intitolato “Per salvare l’uomo non servono gli animali” al quale noi di Pro-test Italia abbiamo assistito. Fervida sostenitrice da diverso tempo dell’inutilità della sperimentazione animale nella ricerca biomedica, in passato ha tenuto altri talk sulla tematica come quello intitolato “Una ricerca biomedica senza sofferenza” per TEDxVareseSalon.

Da quanto si può intuire dai titoli degli interventi della dottoressa Pistollato, i ricercatori si divertirebbero a perpetrare inutili sofferenze sugli animali nonostante l’esistenza di metodi alternativi. Ma se questi metodi alternativi sono così efficaci perché la comunità scientifica non li ha ancora adottati evitando così definitivamente la sperimentazione animale?

Dal momento che uno degli argomenti a cui la dottoressa ha dato maggiore peso ruota attorno alla ricerca sul morbo di Alzheimer, alla quale essa imputa i rallentamenti a causa della sperimentazione in vivo, abbiamo sottoposto le sue affermazioni a  Bart De Strooper, biologo molecolare e professore presso il VIB e KU Leuven e il Dementia Research Institute e l’University College di Londra i cui interessi di ricerca riguardano l’Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. Nel 2018  ha vinto il Brain Prize,  un premio ambito e importante nell’ambito delle neuroscienze, per aver scoperto i meccanismi genetici di base relativi all’Alzheimer; inoltre abbiamo contattato associazioni e scienziati che si occupano specificatamente della tematica.

Francesca Pistollato: “Prendiamo in considerazione soprattutto ratti e topi che sono quelli utilizzati maggiormente: l’85-86% della sperimentazione scientifica si basa su modelli di roditori perché sono facili da stabulare, da tenere all’interno di colonie, si possono creare degli incroci genetici creando dei ceppi specifici per simulare alcuni tipi di patologie (alcuni tipi di cancro o l’Alzheimer). Solo per l’Alzheimer, che è un po’ l’esempio più eclatante se si vuole ragionare sulla validità del modello animale, sono stati creati più di 170 modelli di topo transgenici. È praticamente l’ambito di ricerca biomedica con più alto numero di ceppi murini transgenici. Se però andiamo a vedere quanto utile è stato tutto questo sforzo scientifico, sono davvero molti soldi che sono stati investiti negli ultimi 30 anni nella creazione di modelli che siano sempre più vicini a quello che può essere la patologia umana: la realtà dei fatti è piuttosto disarmante perché la traducibilità del modello animale in termini di nuovi farmaci che sono efficaci sull’uomo in realtà è piuttosto bassa.”

Bart De Strooper [link alla risposta originale]: “È falso affermare che non abbiamo ancora farmaci per la cura dell’Alzheimer perché i modelli animali non sono adatti a tali ricerche: abbiamo infatti compiuto enormi progressi nell’ambito di tale patologia e di altri disturbi neurodegenerativi. Venti anni fa si sapeva a malapena che fosse una malattia, ora invece grazie ai modelli animali conosciamo i geni, i meccanismi, i bersagli farmacologici e sono stati effettuati i primi trial clinici. Tuttavia, se non sono stati raggiunti alcuni obiettivi in tale ambito di ricerca è perché vengono investiti pochi soldi. Per esempio ci sono circa 43 milioni di persone affette da cancro in tutto il mondo e 46 milioni con demenza. È difficile stimare quanti soldi vengano investiti per la ricerca nei due ambiti ma cercando su Pubmed per vedere quanti articoli vengono prodotti nelle due aree, ci si rende conto che sono stati pubblicati oltre 3.800.000 articoli sul cancro e solo circa 200.000 sulla demenza. Il motivo principale per cui non abbiamo ancora buoni farmaci per l’Alzheimer è semplicemente perché non sappiamo abbastanza sui meccanismi della malattia in questo momento.
L’altro problema è che molti trial clinici falliscono perché le ipotesi sulle quali si basano sono errate a priori: sono stati progettati per ridurre la β-amiloide, ma sono stati testati per trattare i sintomi della demenza. Il legame tra β-amiloide e demenza non è stato ancora del tutto chiarito in quanto ci vogliono venti anni per passare dai primi depositi di β-amiloide al fenotipo clinico della demenza. È ingenuo credere che dopo venti anni di decorso patologico tutto possa essere facilmente corretto: il trattamento di riduzione della β-amiloide deve essere eseguito prima che i neuroni e i circuiti del cervello vengano irreversibilmente danneggiati.

Francesca Pistollato: “La traducibilità del modello animale in termini di nuovi farmaci che sono efficaci sull’uomo in realtà è piuttosto bassa. Uno studio di Cummings et al. (2014) hanno preso in considerazione tutti i farmaci testati dal 2002 al 2012 e solamente 1 di 400 farmaci è risultato essere abbastanza efficace per l’uomo, ma non comunque risolutivo nell’ambito dell’Alzheimer; questo si è tradotto con un tasso di fallimento del 99,6%, evidentemente non accettabile.”

A quanto pare la dottoressa Pistollato sembra non aggiornarsi dal 2014 [1] dal momento che il gruppo di Cummings conduce ogni anno lo studio per monitorare quanti farmaci per l’Alzheimer vengono testati, l’ultimo dei quali risale al 2019 [2]. Gli autori dello studio dichiarano: “Come in altre malattie croniche quali il cancro, il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) e le malattie cardiovascolari, la fase di comprensione dei meccanismi della patologia ha preceduto i sequenziali e incrementali successi che alla fine hanno portato a un trattamento significativo” ergo, come già affermato da De Strooper, avremo risultati deludenti nella fase iniziale, finché impareremo abbastanza sulla malattia e solo dopo inizieremo ad avere terapie utili.

Francesca Pistollato: “È vero che l’organismo animale è complesso ma è anche vero che questa complessità non rispecchia in toto quella umana: non posso riprodurre la risposta sistemica e biologica di un essere umano, sto simulando qualcosa nell’aspettativa che possa essere simile ma non lo è molto spesso come ad esempio per l’Alzheimer.”

Bart De Strooper [link alla risposta originale]: “È molto fuorviante affermare che i modelli animali per l’Alzheimer non siano utili. Tutto ciò che è stato scoperto negli studi clinici proviene proprio da tali modelli: ad esempio sono stati analizzati gli effetti collaterali dei farmaci inibitori della ɣ-secretasi e di BACE1, in particolar modo i primi nel 1999, i secondi qualche anno dopo. In questo modo gli scienziati hanno avuto la possibilità di avvertire in tempo l’industria farmaceutica delle problematiche legate all’uso di questi inibitori.
Più recentemente, l’infiammazione legata all’Alzheimer è stata osservata per la prima volta in modelli murini e ora si sta monitorando anche sull’uomo. Dunque risulta chiaro che il modello animale ha permesso di avere una visione abbastanza completa della malattia, di effettuare la verifica sperimentale dei meccanismi che si conoscevano solo teoricamente e di comprendere cosa potrebbe andare storto nell’uomo. È semplicemente ingiusto ignorare queste dimostrazioni.
È comunque innegabile che sia molto difficile modellare completamente la malattia di Alzheimer negli animali (ma risulta ancora più complicato simulare la patologia con sistemi in vitro e in silico): nonostante possiamo generare solo modelli parziali nel topo perché il cervello murino e il cervello umano risultano essere abbastanza diversi, come spiegato precedentemente, possiamo ancora imparare molto grazie alle cavie animali e ovviamente si preferisce iniziare con esperimenti sui topi rispetto agli esseri umani.”

Francesca Pistollato: “Al JRC utilizziamo delle cellule neuronali, misto di neuroni e astrociti: facendoli crescere in un complesso sistema 3D mediante l’utilizzo di scaffold e sistemi microfluidici, è possibile ricreare sempre di più in vitro la complessità del tessuto. Ci sono alcuni studi che stanno dimostrando, facendo un confronto tra modello animale e questi complessi sistemi in vitro, quali dei due potrebbe essere più predittivo nella risposta a una sostanza farmacologica. Si sta riscontrando che in effetti i modelli alternativi sono addirittura più predittivi in ampia scala rispetto al modello animale stesso”

Bart De Strooper [link alla risposta originale]: “È falso affermare che i modelli in vitro possano attualmente sostituire tutto il lavoro che viene effettuato sugli animali. Gli organoidi cerebrali (il sistema 3D descritto dalla professoressa, NdR) o altre alternative NON possono sostituire i modelli animali in questo momento in quanto non forniscono un contesto fisiologico sufficientemente adeguato per studiare, ad esempio, gli effetti collaterali dei farmaci o l’effetto sui circuiti cerebrali. Ci vorranno almeno altri dieci anni (se non di più) prima che le alternative in vitro per lo studio delle malattie umane siano sufficientemente operative per fornire previsioni degne di fiducia. Nel frattempo dovremmo anche confrontare i risultati ottenuti negli organoidi cerebrali e negli animali per sapere se ci stiamo muovendo nella giusta direzione.”

Francesca Pistollato: “Molte industrie farmaceutiche come la Pfizer stanno progressivamente diminuendo i loro sforzi di produzione nell’ambito degli investimenti (in modelli animali) per trattamenti farmacologici, perché si sta rivelando un business per loro insostenibile o comunque estremamente dispendioso.”

Si prevede che il mercato globale dei modelli animali raggiungerà quota 24 miliardi di dollari entro il 2025, secondo un rapporto di ricerca della Global Market Insights, Inc.

Il crescente utilizzo di modelli animali nello sviluppo di vaccini e di farmaci per la cura del cancro sono solo alcuni degli stimoli più importanti che spingono le case farmaceutiche verso tale investimento. Il mercato dei topi ha detenuto la quota massima di oltre il 51,7% ed è stato valutato a circa 7 miliardi di dollari nel 2018. L’aumento del numero di topi impiegati nella ricerca sul cancro sta fiorendo a causa della loro ampia disponibilità, del loro tasso di riproduzione rapido, della loro similarità genomica per il 97.5% con l’uomo, per il loro utilizzo negli studi di vari disturbi neurodegenerativi e per valutare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci nell’attività di ricerca e sviluppo nel settore farmaceutico.

Francesca Pistollato: “Ragionare sul fatto che il modello animale è buono solo perché gran parte del genoma è conservato è limitante e si dovrebbe quindi procedere oltre, pensare a qualcos’altro. Le scimmie hanno un modo di comportarsi, di interagire tra di loro che è estremamente diverso, può essere simile per alcuni processi evolutivi base, ma molto diverso per molti altri. Il modo di nutrirsi è diverso, le dinamiche territoriali che creano sono diverse. Per cui pensare che ci possa essere una concordanza così, e pensare che esperimenti con la scimmia, o con lo scimpanzé o il macaco possano essere così direttamente traducibili è un azzardo, lo è sempre stato.”

Purtroppo il livello di indignazione da parte del mondo animalista nei confronti dell’uso di cavie aumenta in base alla posizione dell’animale nella scala filogenetica. Ed è qui che troviamo i nostri più vicini parenti, i primati non umani. È però doveroso sottolineare che in Europa la sperimentazione animale non è autorizzata sui primati antropomorfi: “L’uso delle scimmie antropomorfe, in quanto specie più vicine all’essere umano dotate delle competenze sociali e comportamentali più avanzate, dovrebbe essere autorizzato unicamente ai fini di ricerche volte alla conservazione di dette specie, e qualora sia necessario intervenire per un’affezione potenzialmente letale e debilitante per l’essere umano, e nessun’altra specie o metodo alternativo sarebbe sufficiente per raggiungere gli scopi della procedura.” [3]

I ricercatori quindi continuano nonostante tutto a svolgere ricerche su questi animali perché, come organismi modello per lo studio di moltissime patologie (malattie cardiovascolari, metaboliche, infettive, autoimmuni o disturbi polmonari), i primati forniscono informazioni uniche che non possono essere ricavate da organismi di ordine inferiore. In particolar modo in ambito neuroscientifico, il volume del cervello e la complessità delle loro strutture cerebrali sono fattori chiave che supportano l’uso dei primati in particolare nello studio dei gangli della base, le strutture coinvolte nel morbo di Parkinson [4]. A differenza di quanto sostenuto dalla Pistollato, una delle motivazioni che sembra spingere gli scienziati verso l’utilizzo dei primati sembra proprio risiedere nella complessità del comportamento animale, proprio nel fatto che le risposte che stiamo ricercando risultano essere più vicine a quelle che troveremmo negli esseri umani [5].

Conclusioni

Come ha affermato il professor De Strooper ci sono poche branche della scienza della vita che sono fortemente regolamentate e supervisionate come la sperimentazione sugli animali:

Bart De Strooper [link alla risposta originale] “Investiamo molto in Europa in buoni modelli, nella loro gestione e nell’etica della sperimentazione, sostituendo gli esperimenti sugli animali quando ci sono buone alternative. Non vedo nessuno scienziato fare esperimenti su animali senza buone ragioni. L’unico effetto che si potrebbe avere è che quando si vietano gli esperimenti sugli animali in Italia e in Europa, gli scienziati continueranno in altri paesi dove c’è molta meno regolamentazione.
Mi chiedo cosa farà l’Italia una volta che un farmaco per l’Alzheimer verrà trovato grazie a esperimenti su animali in altri Paesi. Proibirà il suo uso a causa degli esperimenti sugli animali? La professoressa Francesca Pistollato sta fuorviando il pubblico e ciò che sta dicendo è un grande pericolo per i progressi della ricerca nell’ambito dell’Alzheimer.

È alquanto grave che degli eventi di divulgazione scientifica finiscano per allontanare le persone dalla scienza, rischiando addirittura di mettere in pericolo i progressi della ricerca stessa su un Morbo così importante e drammatico come quello di Alzheimer. Forse sarebbe indicato non solo controllare i relatori, se esistono conflitti di interesse – chi lavora con i metodi alternativi potrebbe avere interesse a condannare la sperimentazione animale tout court per una questione di finanziamenti – e sottoporre gli interventi a revisione da parte dei maggiori esperti sulla tematica.

Ringraziamenti

Ringraziamo per la consulenza offertaci il dottor Adriano Aguzzi, medico e docente universitario presso l’Università di Zurigo ed esperto di neuro-oncologia e neurovirologia, e il dottor Bart De Strooper, biologo molecolare e professore presso il VIB e KU Leuven e il Dementia Research Institute e l’University College di Londra. Ringraziamo inoltre l‘Alzheimer Society, una delle massime organizzazioni in materia, la quale ci ha indicato il suo parere sulla sperimentazione animale.

Glossario

  • β-amiloide: proteina neurotossica che si accumula nel cervello portando a morte neuronale progressiva nel decorso dell’Alzheimer
  • fenotipo clinico: qualsiasi caratteristica o tratto osservabile di una malattia, come morfologia, sviluppo, comportamento, proprietà biochimiche e fisiologiche
  • Ɣ-secretasi e BACE1: enzimi che fisiologicamente scindono la β-amiloide

Bibliografia

  • 1. Cummings, J.L., Morstorf, T. & Zhong, K. Alzheimer’s disease drug-development pipeline: few candidates, frequent failures. Alz Res Therapy 6, 37 (2014) doi:10.1186/alzrt269
  • 2. Cummings, J., Lee, G., Ritter, A., Sabbagh, M., & Zhong, K. (2019). Alzheimer’s disease drug development pipeline: 2019. Alzheimer’s & dementia (New York, N. Y.), 5, 272–293. doi:10.1016/j.trci.2019.05.008
  • 3. Direttiva 2010/63/UE del parlamento europeo e del consiglio del 22 settembre 2010 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32010L0063:IT:HTML)
  • 4. Vallender, E. J., & Miller, G. M. (2013). Nonhuman primate models in the genomic era: a paradigm shift. ILAR journal, 54(2), 154–165. doi:10.1093/ilar/ilt044
  • 5. Capitanio, J. P., & Emborg, M. E. (2008). Contributions of non-human primates to neuroscience research. The Lancet, 371(9618), 1126-1135.

Per approfondire

Potrebbero interessarti anche...