Giornalismo imparziale e propaganda di regime

Ci ho messo del tempo a scrivere questo pezzo, perché veramente non sapevo da dove incominciare, tante erano le inesattezze da correggere nell’articolo che mi son trovato a commentare.
Chiariamoci subito: siamo abbastanza abituati al fatto che gli scritti di Margherita D’Amico sul tema della sperimentazione animale contengano frequentemente errori e inesattezze, e siamo anche abituati al fatto che la nostra arrivi a citare come fonte nei suoi scritti anche un blog nato il giorno prima (con l’evidente scopo di gettare fango su una persona, dato che quello che la D’Amico aveva citato era il primo e unico articolo mai pubblicato su quel blog), gettando così alle ortiche tutto quanto si insegna ai corsi di giornalismo sulla valutazione dell’attendibilità delle fonti.
Ma dobbiamo ammettere che questa volta la nostra simpatica autrice si è superata: dobbiamo davvero farle i complimenti perché riuscire a fare quanto ha fatto la eleva a livelli mai raggiunti prima neppure dai suoi più insigni predecessori nel campo della carta stampata.
Ma andiamo con ordine.
Lo scorso 9 Febbraio Repubblica riportava, all’interno di un interessante dossier sulla sperimentazione animale, tre articoli: uno a firma della Senatrice Prof.ssa Elena Cattaneo (ricercatrice e docente di farmacologia, nonché una delle maggiori esperte mondiali di cellule staminali), uno a firma del Dott. Andrea Grignolio (docente di storia della medicina) sulla vicenda del Talidomide, e uno a firma di due genitori di una bambina ammalata di SMARD1, una malattia rara a base genetica, di quelle per le quali al momento non vi sono purtroppo ancora terapie.
Orbene, il commento della D’Amico a riguardo è, secondo la nostra modestissima opinione, quanto più si allontana dalla definizione di giornalismo imparziale, e pericolosamente forse si avvicina all’altro estremo.
Lo scritto inizia con un richiamo alla fallibilità della scienza e all’umanità dei ricercatori, tanto condivisibile nella sostanza, quanto applicabile ad litteram anche al giornalismo e alla categoria dei giornalisti che, in base a quanto prevede la “Carta dei Doveri del Giornalista“, hanno come “obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti”.
Eppure anche nel campo del giornalismo ci sono stati casi, storicamente accertati e documentati, in cui il lavoro di giornalista è stato sostituto da quello di propagandista. Quindi se è utile richiamare il fatto che ci sono scienziati che falsificano i dati per sostenere una tesi (è di questi giorni, ad esempio, la cronaca di un professore universitario italiano che è stato sanzionato dalla sua università per aver falsificato dei dati pur di sostenere una tesi contro gli OGM), è altrettanto vero che ci sono stati giornalisti che hanno presentato versioni distorte della realtà nei loro articoli solo perché questo si adattava alla loro ideologia o ad assecondare il “potente di turno”.
La D’Amico prosegue poi ricordando, correttamente, che la scienza parla una lingua comprensibile a pochi e che, altrettanto correttamente, “unico collegio giudicante è la comunità scientifica stessa”.
“Bene, brava, sette più!”, per citare un famoso duo di qualche anno fa …
Peccato che con queste parole finisca inesorabilmente la parte condivisibile del pezzo, e che da questo punto in poi complottismi di terz’ordine e grossolane inesattezze scientifiche la facciano da padrone.
I dolori iniziano quando, con fare sottile, la D’Amico inizia a scrivere di come la scienza ci richieda uno “sforzo di fiducia”. No, la scienza non chiede uno sforzo di fiducia. La scienza chiede “Studio”: quello Studio (volutamente con la S maiuscola) senza il quale esprimere pareri è equivalente a uno spreco di ossigeno e/o di inchiostro e carta.
Se un ingegnere mi viene a dire che per fare le fondamenta del grattacielo serve il cemento armato e non i panetti di burro, credergli non è uno sforzo di fiducia: è scienza.
Se lo stesso ingegnere mi dice che per fare i tiranti del ponte servono i cavi di acciaio e non gli elastici delle mutande usate del nonno, seguire il suo consiglio non è fiducia: è scienza.
Se invece pubblichi una foto di una pratica veterinaria senza sapere la provenienza della foto, quella sì, è fiducia (anzi… fede)!
Ebbene, chi sarà mai, si chiederanno i nostri lettori, che potrebbe pubblicare una foto di questo tipo e definirla nientepopodimeno che come “vivisezione”? Vivisezione che, peraltro, è pratica vietata da tutte le normative vigenti in Italia, a partire dalla circolare 51 del 29 Marzo 1972 della Direzione generale dei servizi veterinari, per proseguire poi con la 15 del 18 Febbraio del 1974, che differenziava chiaramente la vivisezione dalla sperimentazione animale (e, detto tra noi, stupisce seriamente che ad una giornalista sia sfuggito questo “piccolo dettaglio”, anche perché il 1972 non è proprio l’altro ieri!).
Ordunque, la D’Amico, che tanto tiene alla certezza e tanto aborrisce gli sforzi di fiducia, ci regala una foto di una scimmia (con sotto una didascalia che parla di “vivisezione”) alla quale viene fatta un’iniezione su una palpebra.
La buona pratica veterinaria per il test per la tubercolsi prevede l’iniezione di 0.1 ml di soluzione (poco più di una goccia) nella palpebra, in maniera da poter visualizzare l’eventuale arrossamento.
Ed è triste notare in che razza di errore cada l’autrice, nonché la fiducia cieca che ella ha riposto in colui o colei che le ha fornito quella foto. Quello scatto non solo non rappresenta la vivisezione, ma non rappresenta nemmeno un esperimento!
Oddio, eravamo abituati a leggere su internet di ignoranti che pubblicavano foto tratte da film horror (con tanto di pupazzi di Rambaldi), ma speravamo che una giornalista, regolarmente iscritta all’albo come pubblicista, volasse un pelino più alto e, soprattutto, controllasse le fonti.
Quella che si vede ritratta, infatti, non è altro che una tecnica veterinaria (un test per la tubercolosi, obbligatorio per legge per i primati) eseguita correttamente: non solo, ma la tecnica è pure eseguita su un animale completamente sedato. E come dovremmo fidarci delle opinioni sulla sperimentazione animale di una persona che non è neppure capace di distinguere un esperimento da un esame veterinario obbligatorio eseguito correttamente?
Sì, concordo con voi lettori che un errore così gigantesco sarebbe sufficiente per bloccarsi nella lettura dello scritto e passare a qualcosa di più interessante, soprattutto dopo la predica sulla veridicità delle informazioni e sugli sforzi di fiducia, ma purtroppo non possiamo esimerci dal continuare, perché questo è solo un piccolo antipasto degli errori che da adesso in avanti ci toccherà leggere.
La nostra scrittrice prosegue apostrofando la Professoressa Cattaneo come “ricercatrice pro OGM e sperimentazione animale”, e almeno questo è vero. Lascia qualche perplessità, però, il modo in cui le due cose siano accostate arbitrariamente, come se fossero entrambe errate e andassero insieme.
Forse la D’Amico corteggia il consenso degli anti OGM? “La Cattaneo è pro-OGM, quindi la Cattaneo è cattiva, ma la Cattaneo è anche pro-sperimentazione animale, quindi la sperimentazione animale è cattiva”?
Chissà se una delle prossime volte dirà anche che la professoressa Cattaneo è favorevole ai vaccini, contraria alle pseudomedicine e probabilmente concorda con noi nel ritenere scie chimiche, rettiliani e morgellons come parti della fantasia di persone con gravi problemi psichici?
Essere favorevoli agli OGM e alla sperimentazione animale vuol dire solo concordare con l’opinione della comunità scientifica mondiale, non è niente di eccezionale che uno dei suoi più illustri esponenti concordi a riguardo. Essere contrari, piuttosto, vuol dire fare un atto di fede non suffragato da prove scientifiche.
La concione della D’Amico prosegue con le “deroghe, sempre più di frequente accordate, per testare senza anestesia, proprio affinché l’animale provi dolore”: e anche qua la nostra autrice cade nell’errore, probabilmente basandosi sui dati inesatti proposti dalla LAV qualche anno fa e pubblicati su un quotidiano nazionale.
I dati della LAV, infatti, riportavano una filippica della Dott.ssa Kuan (anche lei non nuova a riportar dati inesatti) nella quale veniva diffusa una lista di aziende che utilizzavano i cani per la sperimentazione, e in cui la Dott.ssa affermava che “gli esperimenti senza anestesia sono i più invasivi perché il cane è totalmente vigile durante tutta l’operazione e il dolore non viene alleviato in alcun modo”.
Peccato che, se il giornalista dell’epoca (o anche la nostra ineffabile D’Amico oggi) avesse fatto la fatica di controllare le affermazioni della LAV, avrebbe facilmente scoperto che in nessuno dei casi citati l’animale provava la benché minima sensazione di dolore, perché in nessuno di essi era previsto un qualunque intervento chirurgico doloroso.
A scorrere attentamente la lista delle autorizzazioni riportate, infatti, si ritrovavano per la maggior parte test consistenti nell’assunzione di farmaci per alcuni mesi (per la qual cosa penso nessuno di noi si faccia un’anestesia), test su farmaci veterinari (di quelli che saranno comunemente iniettati ai nostri cani, anche qua sempre senza anestesia) e, addirittura, un antizecche/antizanzare a base di permetrina, sostanzialmente simile a quello che ritroviamo nei collari antipulci che mettiamo regolarmente ai nostri cani.
Chissà se secondo la Dott.ssa Kuan i nostri animali andrebbero messi sotto anestesia quando portano il collare antipulci, o se secondo la nostra efficientissima giornalista in quei casi l’anestesia sia stata evitata proprio “perché l’animale provi dolore”!
Che parli del dolore della puntura di zanzara?
Stendiamo un velo sul resto della solita trita e ritrita lista di interventi ricopiati a opera della D’Amico dal comunicato stampa della LAV. Diciamo soltanto che quell’elenco è una perfetta esemplificazione di problematiche che si riscontrano in tutta una serie di patologie umane per le quali siamo ancora alla ricerca del trattamento migliore, oppure una lista di trattamenti che adesso sono pratica comune nell’uomo proprio grazie agli esperimenti condotti negli animali (uno su tutti, la stimolazione cerebrale profonda, che si utilizza per trattare con successo alcuni casi di morbo di Parkinson).
E la nostra giornalista non si è fatta mancare neppure la solita affermazione decontestualizzata del Prof. Klausner, con tanto di “puntini di esclusione” che sono assolutamente inesistenti nella frase originale. La frase, infatti è estrapolata da un articolo che (ma guarda un po’!) parla di tutt’altro: infatti è un articolo di critica verso i giornalisti (ri-guarda un po’!) che storpiano le informazioni scientifiche dando come reali e pronti all’uso dati sperimentali che sono ancora assolutamente preliminari.
Quanto al fatto che la cura del cancro sugli animali sia improduttiva… beh, ci sentiamo di consigliare alla nostra di andare a rivedere le statistiche di sopravvivenza alle varie tipologie di cancro che riportiamo qui, da cui si vede chiaramente il miglioramento.
I trend di sopravvivenza a 10 anni per le varie forme di cancro sono in netto miglioramento, grazie alla sperimentazione animale
Non poteva poi mancare la classica foto di un gatto con un impianto cerebrale (probabilmente vecchia di anni); si omette soltanto di dire che i gatti utilizzati nella ricerca sono, qui in Europa, meno dello 0.2% del totale degli animali da laboratorio, e che impianti del tipo mostrato in foto non sono dolorosi, tanto è vero che si ritrovano sostanzialmente identici anche negli umani.
Un doppio impianto cerebrale su un paziente umano, sostanzialmente identico a quello mostrato nella foto decontestualizzata della nostra cara Margherita. Sembra che sia doloroso?
Anche lo scetticismo della D’Amico sul fatto che esistano stabulazioni di primati che garantiscono ottimi standard di benessere animale è ovviamente privo di fondamento, e anche in questo caso sarebbe bastata pochissima ricerca per scoprirlo (tanto poca che bastava scaricare dal nostro sito il pdf con la traduzione italiana del libro pubblicato da Understanding Research sui primati nella ricerca biomedica).
Un moderno centro di stabulazione di primati, inserito nel verde
A questo punto è d’obbligo rigirare alla nostra integerrima giornalista la sua stessa domanda: “Come credere, allora, al resto?”
E infatti non ci crediamo e vi risparmiamo la lettura del resto del pezzo della D’Amico: anche noi, giunti a questo punto abbiamo bisogno di trovare qualcosa contro la nausea da disinformazione.