Ictus, modelli animali e ricerca: una sfida continua

Nell’ambito della neurologia quello che noi tutti conosciamo come ictus si definisce come una alterazione del flusso sanguigno, a livello di arterie cerebrali, che comporta un mancato nutrimento a livello di determinate aree del cervello, con diversi sintomi a seconda dell’arteria colpita.

La causa di questa alterazione può essere una cosiddetta ischemia, ossia un mancato passaggio di sangue conseguente all’ostruzione dell’arteria, oppure un sanguinamento. Il risultato è la morte dei neuroni che sono nutriti da quel ramo arterioso specifico.

Le conseguenze di questa condizione possono essere diversi a seconda delle aree interessate: si possono avere sintomi di tipo motorio come paresi agli arti, alterazioni sensoriali, difficoltà ad articolare parole o addirittura a parlare o deficit di tipo cognitivo (problemi di memoria o concentrazione per esempio), oltre ad avere anche quadri misti con tutti i sintomi elencati.

Si tratta di una delle cause di morte principali nel mondo occidentale e si stima che negli soli Stati Uniti ogni 40 secondi una persona venga colpita da ictus cerebrale e che ogni 4 minuti una persona muoia in conseguenza di questo evento, con una prevalenza che cresce in proporzione con l’età:

Si stima che ogni anno negli Stati Uniti circa 800.000 persone siano colpite da ictus, per la prima volta o ricorrente, mentre a livello mondiale si parla di una cifra che si aggira attorno ai 33 milioni. A livello americano infine si parla di una spesa, tra costi diretti ed indiretti, che si aggira attorno ai 33 miliardi. [1]

Si tratta di una condizione molto pericolosa e che può lasciare delle conseguenze molto pesanti, sia dal punto di vista fisico che psicologico; capire tutti i meccanismi a livello molecolare e fisiologico che sono coinvolti in questo evento è perciò fondamentale per poter agire in modo tempestivo ed efficace: per questo motivo esiste una florida ricerca a riguardo con lo scopo di trovare degli approcci terapeutici (di tipo farmacologico) che, in acuto, possano limitare i danni alla persona colpita e che successivamente possano facilitarne il recupero e il ripristino delle funzioni perdute, assieme ad approcci di tipo riabilitativo.

Questa ricerca si avvale sia di modelli in vitro, che permettono di comprendere il percorso molecolare che un neurone o un gruppo di neuroni si trova ad affrontare durante questo processo ma che non permette di valutare le modifiche fisiologiche, sia di modelli in vivo, che ci permettono di comprendere e la fisiologia dello stesso e le risposte adattative che vengono messe in atto, a seconda dell’estensione del danno.

L’obiettivo di questa ricerca è anche quello di trovare molecole neuroprotettrici che possano proteggere i neuroni ed evitarne così una morte prematura con le conseguenze che tutti possono immaginare.

Questo tipo di ricerca potrebbe risultare utile non solo nel campo dell’ictus ma anche per molte altre patologie neurodegenerative, dove avviene appunto una morte prematura delle cellule nervose per diverse cause.

La ricerca sull’ictus viene spesso criticata da molti oppositori in quanto, allo stato attuale, abbiamo come unico trattamento efficace in acuto la trombolisi: questa procedura, messa in atto tramite la somministrazione di un farmaco per via endovenosa, consiste nello sciogliere un trombo o un embolo che, provocando l’ostruzione di un vaso cerebrale, causa l’ictus. Uno studio del 2004 di Pound sul British Medical Journal [3] (molto citato da chi è contrario alla sperimentazione animale, ndr) sottolinea, assieme a tanti esempi, come lo studio di questa tecnica attraverso il modello animale non abbia portato alla luce una delle complicanze di questa terapia, cioè il rischio di un sanguinamento; proprio per la natura di questa molecola infatti, il rischio di avere un’emorragia intracraniale nelle ore successive aumenta in modo importante, tant’è che spesso si effettua questa procedura in terapia intensiva e sotto stretto controllo del paziente per almeno 24 ore. In realtà il lavoro di Pound non attacca direttamente il modello animale per quanto riguarda l’ictus ma la metodologia con cui questi studi sono stati effettuati e, soprattutto, nel modo in cui i dati raccolti con la ricerca preclinica vengono utilizzati per progettare i trials clinici sui pazienti.

Se si legge il passaggio dice infatti che:

An unpublished study by Ciccone and Candelise systematically reviewed randomised controlled experiments of animal stroke models that compared the effects of thrombolytic drugs with placebo or open control. The background to the study was the finding that clinical trials of thrombolysis for acute stroke had found a substantial excess risk of intracranial haemorrhage that had not been predicted by individual animal studies. When the animal data were pooled, a significant difference was found in the rate of intracranial haemorrhage between animals in the control and treatment groups.​

Ossia quando i dati sugli studi animali sono stati raccolti e analizzati, è stata riscontrata una differenza significativa, per quanto riguarda il rischio di sanguinamento intracerebrale, tra gli animali trattati col farmaco trombolitico e quelli non trattati. Secondo gli autori di questa reviewi si tratta sostanzialmente di errore metodologico/statistico e non colpa del modello animale in sé. E questo viene sottolineato anche alla fine del lavoro, dove si richiede una migliore metodologia in generale per il modello animale.

Dettaglio che però, spesso e volentieri, non viene sottolineato da chi è contrario alla ricerca sull’animale.

Inoltre viene sottolineato come molte molecole studiate in questo ambito, a livello preclinico, non si traducano concretamente in terapie efficaci. Uno studio pubblicato su Stroke nel 2007 [4] parla addirittura di circa 900 molecole testate sul modello animale, da cui sono state estratte 97 molecole candidate per la sperimentazione sull’uomo, senza risultati promettenti.

Nello stesso studio di Stroke si parlano di diverse possibili cause legate a questo insuccesso che si possono riassumere nella metodologia con cui molti studi sono stati condotti e nel passaggio dei risultati ottenuti dal modello animale al letto del paziente.

Un articolo del 2014 pubblicato su JAMA Neurology [5] chiarisce meglio questo quadro, sottolineando anche le differenze tra modelli in vitro e modelli in vivo, i loro punti di forza (nel modello in vitro per esempio la possibilità di studiare meccanismi molecolari, in quelli in vivo la fisiologia e le risposte all’ictus di un organismo complesso), e le possibili migliorie che si possono apportare agli studi.

Le critiche portate in questa review si possono riassumere in questi punti:

  • le cavie utilizzate non rappresentano adeguatamente i pazienti colpiti da ictus; nel secondo caso infatti si tratta di persone anziane e con altre malattie (problemi cardiaci, polmonari o renali) mentre nel primo si tratta di animali giovani, non affetti da altre malattie; modificare il modello animale in modo che assomigli al paziente, può aiutare ad avere risposte più attendibili;
  • le aree colpite dall’ictus sono estremamente variabili nel paziente per estensione, durata e localizzazione rispetto al modello animale;
  • gli outcomes (ossia gli esiti) valutati nei pazienti, che sono la mortalità e la disabilità, non corrispondono spesso a quelli valutati nel modello animale (valutazione tramite risonanza magnetica o tramite biopsia); nel primo caso inoltre si tratta di indici di tipo cronico mentre nel secondo di tipo acuto/subacuto; riuscire ad integrare queste valutazioni può senz’altro avere un ruolo importante negli studi preclinici;
  • dosaggi, intervalli d’uso e pretrattamenti sono normali e abbastanza variabili nei modelli preclinici mentre, a livello clinico, necessitano di linee guida ben precise; i pretrattamenti inoltre sono impossibili nel paziente; una standardizzazione di queste metodiche permetterebbe di poter ottenere dei dati più utilizzabili e rilevanti per i trial clinici.

In base anche a valutazioni come queste sono state redatte delle linee guida chiamate STAIR (Stroke Academic Industry Roundtable) per un corretto utilizzo dei modelli preclinici nell’ambito della ricerca sull’ictus, uscite nel 1999 e aggiornate nel 2009 [6], che sostanzialmente riprendono i punti critici sottolineati anche sul lavoro in JAMA Neurology e propongono dei principi da seguire nell’ambito della ricerca preclinica sull’ictus, come per esempio la riproducibilità dei risultati in almeno due laboratori indipendenti per poter procedere alla fase clinica o l’utilizzo di due specie diverse.
L’applicazione di questi principi può risultare utile per poter ottenere risultati più attendibili, applicabili alla realtà clinica dell’ictus nel paziente ed evitare sperimentazioni inutili o dai risultati dubbi o inutilizzabili, contribuendo alla scoperta di possibili molecole utili sia per l’uomo che per l’animale, quindi nell’ambito veterinario.

Dr. Marco Delli Zotti

Comitato Scientifico Pro-Test Italia

[1] http://circ.ahajournals.org/content/131/4/e29.full.pdf

[2] Ain A. Neuhaus, BA; Tamer Rabie, PhD; Brad A. Sutherland, PhD; Michalis Papadakis, PhD; Gina Hadley, MRCP; Ruiyao Cai, BSc; Alastair M. Buchan, FMedSci Importance of Preclinical Research in the Development of Neuroprotective Strategies for Ischemic Stroke JAMA Neurol. 2014;71(5):634-639. doi:10.1001/jamaneurol.2013.6299.

[3] http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC351856/

[4] http://stroke.ahajournals.org/content/38/2/388.full

[5] http://archneur.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1834622&resultClick=3

[6] http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2888275/

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