SMA Tipo 3: la storia di Cristina, donna fuori dal comune!
Intervista a cura della Dott.ssa Elisabetta Scapicchi – Psicologa
Cosa sono le malattie rare?
Una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, ovvero il numero dei casi presenti nella popolazione in un determinato momento, non supera una determinata soglia. La soglia varia a seconda del paese al quale ci si riferisce. L’Italia si rifà alla soglia europea che è stata fissata allo 0.05%. Questo significa che una malattia viene considerata rara se presenta 1 caso ogni 2.000 abitanti. Alcune malattie sono talmente rare che colpiscono una persona ogni 100.000 (1).
Fino ad oggi si conoscono, grazie alla ricerca e allo sviluppo delle tecniche scientifiche di indagine, tra le 7.000 e le 8.000 malattie rare che colpiscono in tutto il mondo milioni di persone.
Le persone affette da malattie rare sono più di quelle che crediamo, non lasciamoci ingannare dal termine “raro” per pensare che non esistano.
Oggi abbiamo voluto dar voce a Cristina, una donna con una grinta ed una forza di volontà fuori dal comune che ci racconterà cosa vuol dire essere una malata rara.
Cristina è affetta da una patologia rara chiamata SMA Tipo 3 (Atrofia Muscolare Spinale Tipo 3), una malattia caratterizzata da debolezza muscolare e ipotonia causate dalla degenerazione/perdita progressiva dei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale e dei nuclei del tronco encefalo.
Raccontaci un po’ di te.
Sono una signora di 66 anni malata da quando sono nata. Ho vissuto per gran parte della mia vita in una piccola città del Veneto e, per 35 anni, ho lavorato come albergatrice. Mi sono sposata due volte: la prima volta a 19 anni e mezzo con un uomo che divenne albergatore come me e le seconda volta a 60 anni con un medico che ho conosciuto tramite Internet. Entrambi eravamo vedovi e dopo esserci incontrati e frequentati abbiamo deciso di condividere la nostra vita. Facciamo la vita da pensionati e ce la spassiamo in giro per il mondo. 32 anni fa ho adottato una bambina e sposandomi la seconda volta ho acquisito i due figli di mio marito. Il mio hobby è ricamare ed ora sono concentrata nel fare i corredini per i miei futuri nipotini.
Come ti sei accorta di essere malata?
I miei genitori si accorsero che qualcosa in me non andava perché a 15 mesi ancora non camminavo. Quando iniziai a muovere i primi passi ero molto insicura, non poggiavo tutto il piede ma solo le punte e il mio incedere era molto traballante. Mi hanno portata in ogni ospedale e da ogni dottore ma nessuno sapeva cosa avessi. Solo nel 1958, quando io avevo 10 anni, il dottor Kugelberg, svedese, scoprì la mia malattia. Infatti, all’inizio era chiamata Sindrome di Kugelberg-Welander e solo successivamente prese il nome di SMA (Atrofia Muscolare Spinale). In Italia i medici pensavano che io fossi affetta da miopatia muscolare e solo il dott. Pinelli e il dott. Berlucchi della clinica neurologica di Pavia intuirono che la diagnosi era errata e che invece si trattava di SMA. Ad 11 anni, io e la mia famiglia ci recammo a Stoccolma dal dott. Kugelberg in persona che mi fece delle visite specialistiche che confermarono la diagnosi.
Qual è stato il percorso negli ospedali e cosa ti dicevano i medici?
Sono stata visitata da moltissimi medici ma fino a quando non andai a Stoccolma nessuno sapeva che cosa avessi. A 12 anni inizia dei trattamenti di fisioterapia a Monza per correggere la posizione delle gambe e dei piedi ma non ci furono miglioramenti. A 24 anni inizia ad usare la sedia a rotelle.
Quando infine è arrivata la diagnosi cosa hai pensato?
Verso gli 8-9 anni capii che non sarei mai guarita perché vedevo che i dottori brancolavano nel buio. Quando, infine, incontrai il dott. Kugelberg ebbi la certezza che una cura non esisteva. Le parole che il dottore mi disse rimarranno sempre dentro di me: “Hai le mani, la testa, e i piedi, usali! Tutto quello che sai fare e che puoi fare, fallo! Non farti viziare, fai tutto quello che puoi il più possibile”. Ed io ho messo in pratica le sue parole. In occasione del mio matrimonio a 19 anni scrissi al dott. Pinelli che mi seguiva e grazie a lui riuscii ad incontrare a Milano il dott. Kugelberg, che si trovava in Italia per una conferenza, e gli mostrai che stavo mettendo in atto i suoi consigli. Ricordo con piacere il nostro incontro.
In questi anni hai visto crescere la conoscenza medica rispetto alla tua malattia?
Purtroppo non ho visto crescere molto le conoscenze a riguardo. La scienza avanza molto lentamente soprattutto quando si parla di malattie rare. L’unica organizzazione che fa ricerca è la Fondazione Telethon.
Come ti aiutano le istituzioni sia sul piano materiale sia personale?
Sul piano materiale ho l’accompagnatoria per gli invalidi al 100%. Lo stato italiano mi passa la carrozzina elettrica ogni 6 anni e quella a spinta. L’ulteriore attrezzatura l’ho sempre comprata io, per scelta mia. Fino a due anni fa l’Inps mi chiedeva di presentarmi alle visite mediche di controllo per verificare che io non fossi guarita. Ora non lo chiedono più.
Sul piano psicologico e personale non sono mai stata aiutata. Quando ero alle scuole medie il preside non voleva spostare la mia classe dal terzo piano (senza ascensore) al pian terreno perché per una sola persona non si poteva cambiare la disposizione delle aule. Mi suggerì addirittura di restare a casa. Grazie all’intervento del procuratore degli studi, che diede una bella lavata di capo al preside, potei studiare.
Hai due sorelle, entrambe più piccole di te e molti amici, la malattia come ha influenzato questi rapporti?
Forse la malattia ha un po’ influenzato Gianluchina, la sorella a me più vicina d’età. I giochi che facevamo, a causa delle mie poche forze, erano molto ripetitivi ma, nonostante tutto, lei è sempre voluta restare al mio fianco. Quando alle scuole siamo state divise ho notato delle differenze nei comportamenti delle persone: io frequentavo la scuola in campagna, nessuno mi prendeva in giro, tutti mi volevano bene, mentre le amiche di mia sorella, che frequentava la scuola del paese, avevano la puzza sotto il naso e mi offendevano spesso. Mia sorella però è sempre stata con me tanto che, quando si usciva in bicicletta, mi caricava sul portapacchi posteriore e via a correre!
La malattia ha influito sulla tua crescita personale e nel rapporto con i tuoi coetanei?
No, ho sempre avuto bellissimi rapporti con i miei amici ed io ho sempre cercato di non essere un peso perché non pretendevo l’impossibile. Quando potevo andare con loro, andavo ovunque.
Sappiamo che adori viaggiare: la malattia è mai stata un ostacolo?
No e sì. Non sono potuta salire in cima al tempio di Tulum in Messico perché ci sono una marea di gradini però ho visto nuotare le Balene nell’oceano in Argentina ed ho fatto un giro in elicottero!
Raccontaci una tua giornata tipo.
I tempi dei disabili sono rallentati quindi per essere pronta la mattina tra alzarmi dal letto, lavarmi, vestirmi e fare colazione mi occorre circa un’ora e mezza. Per il resto la mia giornata è quella tipica dei pensionati: passeggio, leggo, gioco al computer, vado su Facebook, ricamo. Alla sera qualche volta vado a cena al ristorante o in pizzeria sennò guardo i film in televisione ricamando.
Femminilità e malattia: possono andare d’accordo?
Non ho mai avuto difficoltà a sentirmi femminile e non mi sono mai fatta problemi. Mi sono sempre considerata bella e mi sento bella. Da ragazza con gli uomini era un po’ difficile ma crescendo mi sono fatta coraggio. Sono sempre stata un po’ sfrontata perchè ero io a dichiararmi agli uomini che mi interessavano, loro erano sempre un po’ imbarazzati. Internet è stato un grande aiuto, mi sono anche fatta furba perchè non dicevo subito di essere disabile. Prima ci si scriveva, poi ci si telefonava ed infine, se le cose andavano per il verso giusto, dicevo di essere in sedia a rotelle. Volevo che le persone mi conoscessero per ciò che sono e molti di loro erano davvero incuriositi dalla mia personalità tanto che mi volevano incontrare di persona.
La malattia è stabile oppure sta progredendo?
Purtroppo la malattia sta progredendo molto velocemente. Prima il progredire era intervallato da un lungo periodo di stabilità mentre ora è quasi percepibile. Bisogna sapersi adattare alle nuove situazioni trovando soluzioni alternative per poter continuare a fare quello che si faceva prima. Ora per esempio non riesco a mangiare da sola perché non ho quasi più forza nelle braccia, allora c’è chi mi solleva il gomito affinchè io possa portare la forchetta alla bocca.
Che messaggio lasceresti ai giovani malati?
Sempre avanti! Non cedere, mai compiangersi. Nessuna persona al mondo sta volentieri in compagnia di chi si commisera. Bisogna essere normali, sorridenti perché noi siamo persone normali. Bisogna sapersi far accettare dagli altri come persone e non come disabili. Prima però siamo noi a dover accettare la nostra disabilità. Dobbiamo imparare che se le altre persone sono sane non è colpa loro. Guardiamo dentro di noi perchè le risorse che abbiamo sono davvero grandiose, bisogna solo saperle sfruttare a nostro vantaggio.
Intervista a cura della Dott.ssa Elisabetta Scapicchi – Psicologa
Bibliografia
OMAR: Osservatorio Nazionale Malattie Rare http://www.osservatoriomalattierare.it/home/26