I pacemaker si possono davvero testare su cadaveri o manichini?

Il pacemaker è uno dei più importanti progressi ottenuti grazie alla sperimentazione animale e grazie ad esso pazienti con gravi problemi cardiaci hanno potuto migliorare notevolmente la loro qualità e durata della vita. Recentemente persone contrarie alla sperimentazione animale hanno affermato che questo dispositivo potrebbe essere testato su cadaveri perfusi o su manichini predisposti a questo utilizzo: ma tutto questo è davvero possibile o rimane una bella ipotesi senza applicazioni pratiche?

Nella prima possibilità, quella dei cadaveri (ri)perfusi, rimango davvero perplesso in quanto non comprendo cosa intendano realmente.

Il cuore infatti è uno dei tessuti più sensibili alla carenza di ossigeno, assieme al cervello e ai reni, il danno a livello cardiaco si configura molto presto: entro 2-3 ore inizia il fenomeno dell’apoptosi, ovvero della morte programmata delle cellule in seguito alla carenza di ossigeno parziale (danno ischemico) o totale (infarto), e successivamente inizia il fenomeno della necrosi, la morte cellulare a causa di insulti di varia natura. Tutti questi fenomeni alterano e distruggono il tessuto cardiaco in modo definitivo, provocandone il deterioramento e la perdita di funzione da parte del cuore. L’estensione del danno dipende poi dalla causa dell’ischemia/infarto e dalla capacità di compenso del sistema vascolare (dei vasi che irrorano il tessuto cardiaco).

E’ alquanto particolare quindi ritenere che il cuore di un cadavere sia in perfette condizioni per poter essere utilizzato negli studi dei dispositivi pacemaker, in quanto soggetto ai fenomeni sopra descritti. Se fosse poi riperfuso, ovvero se fosse ripristinata la circolazione all’interno del cuore, si avrebbe il cosiddetto danno da riperfusione che consiste nel danno diretto da parte di specie reattive dell’ossigeno (radicali liberi) che danneggiano la membrana cellulare, le proteine e  il DNA delle cellule, accelerandone la morte. Un danno sopra il danno insomma!

Sospetto però che queste persone non parlino di cadaveri veri e propri ma di persone in stato vegetativo o in morte cerebrale a cuore battente; tuttavia questa possibilità è altrettanto improponibile perchè:

  • non si avrebbero abbastanza persone per poter testare i dispositivi in un tempo relativamente breve visto che servirebbero dei pazienti in condizioni cardiache perfette e in morte cerebrale (condizioni non semplici da trovare); inoltre dopo aver testato questi dispositivi su queste persone si dovrebbero cercare pazienti sempre in morte cerebrale ma che presentino le alterazioni cardiache che servono per quel determinato pacemaker (non tutti i pacemaker infatti sono uguali ma si differenziano per meccanismo d’azione e localizzazione degli elettrodi stimolanti), senza contare poi che dovrebbe essere testato anche in condizioni di stress da parte del paziente, difficilmente ricreabile in un soggetto in stato di morte cerebrale; il risultato finale sarebbe una continua corsa da parte dei medici e ricercatori alla ricerca del paziente da sottoporre ai test, in contrasto con il rispetto del paziente e dei parenti che li vedrebbero come avvoltoi attorno al loro caro; i pazienti in stato vegetativo non li prenderò nemmeno in considerazione in quanto potrebbero anche soffrire per questi test;

  • rispetto alla conclusione del punto precedente la risposta dei parenti potrebbe essere negativa, sia per scelta loro che per volontà lasciate dal paziente, e spero vivamente che questa ipotesi non contempli una forzatura da parte del medico-ricercatore nei confronti dei familiari del paziente;

  • dal punto di vista deontologico sarebbe una pessima decisione in quanto si andrebbe a effettuare su un paziente una procedura non utile al suo miglioramento clinico e soprattutto invasiva, con tutti i rischi collegati alla cosa, per testare un dispositivo che, senza alcun test preliminare sul modello animale, potrebbe essere potenzialmente letale per il paziente stesso; dal punto di vista etico poi si andrebbe a sfruttare una persona “debole” rispetto a noi per poter ottenere risultati scientifici (cosa non troppo distante da quello che fecero molti medici nazisti nei campi di concentramento o sui pazienti portatori di handicap);

La seconda possibilità, quella dei manichini, è decisamente fantasiosa e per nulla pratica in quanto si dovrebbe avere un meccanismo in grado di simulare l’integrazione del sistema di conduzione cardiaco, cioè quelle vie attraverso le quali viene condotto l’impulso attraverso tutto il cuore, e il tessuto cardiaco di contrazione; se questo fosse possibile non si avrebbero difficoltà nel poter anche creare cuori artificiali da trapiantare sicuramente migliori di quelli a disposizione attualmente; purtroppo per ora abbiamo a disposizione dei sistemi che simulano meccanicamente la funzione del cuore ma non si avvicinano minimamente alla reale fisiologia cardiaca e all’integrazione tra i due sistemi citati poche righe sopra, e sicuramente un modello in vitro o simulato non possono rappresentare oggi un valido modello su cui testare un dispositivo pacemaker a meno di non poter creare in laboratorio un cuore umano, obiettivo non ancora raggiunto dalla ricerca scientifica.

È stato anche fatto riferimento all’articolo

Med Device Technol. 2008 Mar-Apr;19(2):30, 32-4.
In vitro biocompatibility testing of biomaterials and medical devices.
Müller U.

L’articolo in questione si limita evidenziare la presenza di alcuni test di screening iniziale per valutare la compatibilità dei soli materiali impiegati dal punto di vista della citotossicità e della emocompatibilità.
E il tutto è chiaramente evidenziato nel testo dell’articolo stesso, che evidentemente non tutti fanno la fatica di leggere (oppure hanno problemi a comprendere quanto ivi scritto):

“”Unsuitable materials can be eliminated by in vitro screenings, and the subsequent animal experiments can be reduced because unsuitable materials can be excluded from animal experiments.”

e anche

“The substitution of animal experiments by specially developed in vitro test methods and the use of tests that minimise any pain and distress for animals is reflected in this ISO 10993 series”

Tutto questo conferma, quindi,  che allo stato attuale per poter testare i dispositivi pacemaker non abbiamo altri mezzi se non l’utilizzo del modello animale che permette di avere a disposizione un modello biologico che rappresenta molto bene il cuore umano dal punto di vista fisiologico.

La ricerca sui dispositivi pacemaker non solo ha permesso di poter ottenere un’approccio terapeutico mai immaginato prima, intervenendo direttamente sul sistema di conduzione del cuore ma ha anche permesso di poter comprenderlo a fondo nelle sue diverse patologie (nel campo delle aritmie o nell’arresto cardiaco per fare un paio di esempi) e soprattutto di poter sviluppare tecnologie quali l’elettrocardiogramma e il defibrillatore (come si può leggere in questo articolo), sempre grazie allo studio sul modello animale.

Quale sarà il futuro del pacemaker? Molto probabilmente una sua versione “biologica” con un innesto di cellule pacemaker a sostituzione del tessuto perduto o danneggiato o addirittura con una terapia per endovena; recentemente infatti i ricercatori del Cedars-Sinai Heart Institute di Los Angeles sono riusciti a trasformare dei cardiomiociti da lavoro, le cellule del cuore che servono a farlo battere per essere chiari, in cardiomiociti pacemaker, ovver in cellule deputate alla creazione di un impulso elettrico a livello cardiaco; il tutto utilizzando un vettore virale contenente il gene implicato nella trasformazione delle cellule cardiache embrionali in cardiomiociti pacemaker, Tbx18, che è stato iniettato nel cuore di una cavia (l’articolo originale che si può trovare in questo link)

Affermare perciò che si possono usare cadaveri, persone in coma cerebrale o manichini non è solo sbagliato dal punto di vista medico e fisiologico ma anche potenzialmente pericoloso dal punto di vista etico.

Dott. Marco Delli Zotti
Dott. Dario Padovan

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