Asinus Novus: una seconda risposta

… Che in questa sede sarà anche l’ultima. Ho varie ragioni infatti di ritenere che non tutti i nostri lettori, e nemmeno la maggior parte di essi, siano interessati al proseguimento di questo dibattito, e che abbiano in effetti perfettamente compreso tutto il senso della nostra risposta al di là di ogni possibile travisamento. Abbiamo infatti risposto ad un articolo di Asinus Novus (da qui in poi AN) in questa sede. Questo scritto ha trovato una risposta, e noi forniremo una risposta ulteriore.
Anche qui adotterò il metodo della risposta punto per punto, visto che sembra essere una delle cose che l’autrice dell’articolo gradisce.

Pensavamo di essere quattro sfigati, e che non ci si filasse nessuno. Siamo effettivamente quattro sfigati ma, incredibilmente, qualcuno ha cominciato a filarcisi: Pro-Test Italia, associazione no-profit nata in difesa della sperimentazione animale.

I grandi di Pro-Test Italia a volte capitano sul vostro sito. Attirate l’attenzione dei pezzi grossi, eh? Non capiamo a dire il vero la sorpresa. Commentai varie volte su quel blog in veste personale, l’unica differenza ora è che ci rivolgiamo ad un articolo pubblicato su di esso come associazione. Da ciò consegue solo che non potrò trovar piacere in un dibattito privato senza fine, ma dovrò limitarmi a rispondere pubblicamente ad alcune delle accuse e eventualmente rimandare altrove ulteriori risposte.

Il punto del pezzo, che stimano sfuggente, è in verità reso esplicito già a partire dal titolo (Occupazione del Dipartimento di Farmacologia: attentato terroristico o disobbedienza civile?): bollare come false e tendenziose le accuse di terrorismo piovute sulle teste dei cinque attivisti di Fermare Green Hill, e qualificare la loro azione come “disobbedienza civile”. Per inciso, i Pro-Testers accolgono questa definizione, aggiungendo soltanto di trovarla una forma di disobbedienza civile un po’ scema.

Più che ritenerla scema, non ci importa della definizione. Ricordiamo infatti che l’infrazione di una legge non si giudica secondo le categorie morali di chi l’ha infranta, troppo comodo. Non ci sono criminali e disobbedienti civili, ci sono solo vari tipi di criminali.
Alcuni, generalmente i peggiori, sono criminali convinti di star salvando l’umanità. L’ansia definitoria in questa sede non ci interessa. Come agli “antispecisti” non importa più di tanto parlare di “vivisezione” o “sperimentazione animale”, perché tanto a loro interessa più un presunto aspetto morale, così a noi non interessa distinguere fra “terrorismo” e “disobbedienza civile” in senso stretto, perché ci interessa l’aspetto morale. E l’aspetto morale qui è un grosso danno sociale per la ricerca, e personale per i ricercatori. Terrorismo? Solo in parte. Io parlo più correttamente di vandalismo. Ma voi chiamatela pure disobbedienza civile, se vi piace, magari è un atto di vandalismo disobbediente, così siamo contenti tutti.

Impostazione che, purtroppo, l’articolista non riesce a mantenere fino alla fine del documento: a un certo punto – ed è particolarmente brusco e improvviso il momento di questo stacco – la sua smania di attaccare la filosofia dell’antispecismo nel suo complesso è tale che si appiglia a un’espressione astratta e variamente interpretabile (questa “apertura” è voluta: il metodo definitorio in filosofia non funziona come avviene per ogni altra scienza particolare), la torce verso il significato (chiuso) che gli fa comodo assegnarle e si concede una digressione al vetriolo che sceglie come bersaglio polemico qualcosa che non ci riguarda più in niente (piccola nota: non a caso smette anche di citarci, e al rigore argomentativo subentra lo sfottò).

Sulle accuse specifiche si tornerà a tempo e luogo, ma per ora vorrei far notare alla scrittrice come la mia torsione filosofica finale non sia la mia torsione. Rispecchia esattamente quello che avviene nel loro scritto, che prima si attacca ad una buffa idea di libertà di informazione, poi cambia argomento e passa a parlare di disobbedienza civile, poi infine scopre le carte secondo cui invece il problema non è né legale né scientifico né giornalistico, ma attiene a presupposti morali.
L’aspetto “morale” viene lasciato per ultimo cronologicamente, ma se ne avverte l’afflato segreto per tutta la durata dell’articolo. Siccome viene rivelato solo alla fine, è solo alla fine che viene affrontato da me.

Ripubblichiamo il documento, che è un video e non una foto. Ciascuno (specie chi lavora o ha lavorato in laboratorio) può valutare se queste immagini, sì prive di spiegazioni, siano anche poco verosimili. Usiamo anche noi per una volta quel tono apodittico tanto caro allo scrivente: sono chiaramente immagini verosimili.

Sì, lo sono. Molte foto pubblicate dagli anti-sperimentazione animale lo sono. Ma qual è il loro effettivo contenuto informativo? È questa la domanda su cui non presentiamo la nostra critica.

In effetti, ogni volta che l’autore intende sostenere qualcosa di arbitrario, adora farlo precedere da espressioni come “chiaro”, “è chiaro che”, “chiaramente”, che dovrebbero martellare nella testa del lettore conclusioni che a uno sguardo più attento (e obiettivo) non risultano affatto così ovvie.

L’intento in realtà è un altro: permettermi di bypassare i passaggi ovvi. Ogni volta che scriviamo o diciamo qualcosa c’è una serie di ovvietà sottointese, ed è sempre difficile, quando l’argomento è particolarmente complesso, capire quanto siano sottointese. Quando dico “chiaramente” si intende che il lettore può arrivarci da solo attraverso passaggi banali. Do per scontato qualcosa anche qui, certo: che abbia più di dieci anni.

Specifichiamo inoltre che gli autori di Asinus Novus sono parecchi, e in netto disaccordo tra loro: trattarli come fossero un coro unisono è già di per sé un’operazione pretestuosa.

Avranno qualcosa in comune, tutti questi autori, o anche io potrei scriverci sopra? Chi scrive cosa è relativamente di scarso interesse, noi si fa riferimento a contenuti pubblicati su AN. Se la vedano loro su come gestire la dialettica interna.

Cosa significa che per gli animalisti la vita animale è sacra, addirittura “sacra quanto nemmeno quella umana è”? Iniziamo col dire che il nostro Pro-Tester sembra appiattire l’intero antispecismo
sull’opera di Peter Singer e Tom Regan (che sono stati del tutto accantonati da una parte rilevante della riflessione antispecista contemporanea, che prende le mosse dalla caratterizzazione dello specismo del sociologo David Nibert), ma neanche a detta di questi la vita animale è “sacra quanto nemmeno quella umana è”.

Secondo Tom Regan, giusnaturalista di matrice kantiana, solo gli esseri con valore intrinseco hanno diritti (il valore intrinseco è il valore di un soggetto indipendentemente dal valore in rapporto con altre persone: soggetto di una vita): tutti i mammiferi mentalmente normali sopra l’anno d’età sono coscienti, e dunque soggetti di una vita, ma lo stesso non vale per tutti quegli animali di cui non è evidente la vita mentale.
Peter Singer, invece, non solo distingue tra quelli che lui definisce individui coscienti (tutti gli animali) e individui autocoscienti (alcuni primati e gli umani), dando maggiore valore alla vita dei secondi in virtù della loro capacità di fare progetti per il futuro, ma desacralizza la stessa vita umana (pure fra gli animalisti, quanti sono rimasti aggiacciati nel sentirlo argomentare a sostegno della liceità morale non solo dell’aborto e dell’eutanasia, ma della possibilità di sopprimere neonati?). Come nota l’antispecista John Sanbonmatsu, critico nei suoi confronti, proprio la «devozione all’utilitarismo gli rende praticamente impossibile trovare qualcosa di erroneo nell’uccisione di un animale, anche umano, se questa è condotta in modo indolore».

Molte parole, a mio avviso abbastanza fuori luogo, e per la fine dell’articolo sarà chiaro perché.

Il mio punto fondamentale è questo: finora non ho trovato un filosofo che si definisca antispecista è che possa essere definito “profondo”, ovvero capace di un’analisi seriamente affilata e decostruttiva della ragione morale. Qui si citano Regan e Singer, ponendo attenzione alle loro “profonde” differenze. La verità è che in due analisi superficiali come quelle di Regan e Singer, una differenza anch’essa superficiale diventa una differenza apparentemente profonda. Profondamente superficiale, superficialmente profonda…

La verità è che i substrati profondi sono identici; due su tutti, il realismo morale e il concetto ad esso strettamente legato di valore morale intrinseco: tanto Singer che Regan valutano i valori morali come proprietà intrinseche della realtà, non come prodotto umano; Regan su questo è molto esplicito, Singer di meno perché si lega ad una proprietà astratta degli enti, la sensibilità, ma comunque ad essa attribuisce un valore intrinseco, non legato al contesto, non prodotto sociale.

Questa è la problematica fondamentale di tutte le filosofie antispeciste: hanno bisogno di considerare l’esistenza di “fatti morali” come reale e indipendente dalla dimensione umana, di modo da far avvertire al lettore o all’ascoltatore una “necessità morale” che di fatto non esiste, ma sta venendo ingegnerizzata in laboratorio davanti ai suoi occhi.

Infatti il rifiuto del relativismo etico è un tema di fondo fortissimo negli scritti degli antispecisti. Ogni scritto di autori che volessero incasellarsi sotto l’etichetta di “antispecisti” su cui abbia mai messo le mani, inclusi vari articoli sullo stesso AN, hanno il presupposto, dichiarato apertamente oppure mantenuto di nascosto, del realismo morale e del valore morale intrinseco; non c’è mai il riconoscimento del valore morale come di un attributo prodotto dall’uomo, probabilmente perché sarebbe il riconoscimento dell’inesistenza di necessità morali che non siano di derivazione antropica. Inoltre, questa ammissione avrebbe un altro effetto pesante: la necessità di ammettere che qualunque sistema morale discendente dall’azione umana è sempre espressione di potere e signoria umana, perfino una cosiddetta “etica antispecista” lo sarebbe. Non esistono morali decentrate rispetto all’uomo più di quanto non possano esistere un’arte o una tecnologia decentrate rispetto all’uomo: esse portano sempre l’impronta palese del loro creatore.

Questo è il problema profondo, insanabile, di tutte le prospettive cosiddette antispecistiche sul rapporto uomo animale, e solo delle loro. Non è visto infatti come un problema dai sostenitori del benessere animale, che combattono contro pratiche di sfruttamento animale ritenute eccessive, ma da una prospettiva dichiaratamente antropica. Tutte le altre prospettive portano dietro di sé l’ombra dell’ “ordine morale naturale”, quello stesso ordine di cui parla la Chiesa, fondamentalmente. Perché alla fine il fantasma vero che anima il corpo di queste filosofie è quello di Dio. Un Dio animalista, che potrebbe essere una gradita innovazione per i credenti più modernisti, ma riesce anche nella mirabile impresa di scontentare tanto gli atei, perché è sempre un Dio, quanto i credenti tradizionali, perché non è il loro.

In generale, a giudicare dallo stile di argomentazione, si direbbe che l’autrice manchi della capacità di cogliere i collegamenti stretti fra i vari strati del pensiero: prende una differenza superficiale, e si convince che sia superprofonda. Prende una critica superficiale, e manca qui invece di coglierne le implicazioni profonde. Le classiche critiche che di primo acchito vengono rivolte agli antispecisti sono per lo più obiezioni di carattere pratico e dunque apparentemente superficiali, ma chiaramente (ora si capisce come lo uso, sì?) in realtà sono l’aspetto emergente di contraddizioni interne profonde, di mancanze strutturali connesse al realismo morale.

In un certo senso li si va a seguire sul loro stesso campo, rimanendo in superficie. La forma implicita dell’obiezione è: se i privilegi “grondanti di sangue” degli umani sono sbagliati, allora vedi quali assurde contraddizioni incontriamo proponendoci di annullarli? Esempio, gli ospedali sono un privilegio umano, la sovrappopolazione è un privilegio umano, sopravvivere al parto in novantanove casi su cento è un privilegio umano che, chiaramente (passaggi banali sottointesi), non è senza ripercussioni negative su ecosistemi e vite animali. Dobbiamo annullare gli ospedali?

La forma esplicita e radicale della suddetta obiezione sarebbe molto più lunga ed articolata. Il mio blog personale ne contiene un’esposizione forse accettabile ancorché un po’ spezzettata, ma per il lettore che non abbia voglia di sprofondarsi nei meandri della dottrina filosofica un’obiezione superficiale è spesso sufficiente, se superficiale è anche la teoria che la subisce, e soprattutto se le radici reali di questa obiezione affondando in motivazioni filosofiche profonde.

Sfidiamo lo scrivente a trovare un solo rigo, nel web, dove i due autori dell’articolo che prende in esame commenterebbero fantasiosamente immagini riguardanti la sperimentazione animale. Altrimenti, rispediamo cordialmente questa insinuazione al mittente.

La comunicazione si svolge sempre su più piani. Con i miei “chiaramente” io faccio presente l’esistenza di un piano implicito, quello che è dato per scontato. Cos’è dato per scontato quando si canta il peana del diritto a “vedere” e contemporaneamente, con sottili scambi dialettici, a “sapere” cosa si fa in un laboratorio? Si intende che adesso ci sia un deficit in tal senso. Notiamo ancora che il fantasma della corretta informazione nel primo articolo su AN è invocato una volta sola, il fantasma del “vedere” invece almeno due, e in maniera esplicita: non si dice infatti “abbiamo diritto di sapere”, ma “abbiamo diritto di vedere”. Suppongo possa dare fastidio la mia tendenza a vivisezionare la comunicazione, ma quello che avviene nelle righe incriminate e uno scambio continuo, non mi importa se voluto o casuale, fra la dimensione del vedere e quella del sapere, che suggerisce che in realtà il vedere sia la parte fondamentale del sapere cosa accade. La pubblicazione di un video che, per stessa ammissione dell’autrice, non porta spiegazioni, completa il quadro dando ad intendere che vedere sia sufficiente, e che a far sapere non ci tengano molto.

Non si operano esseri umani per divertimento, così come non si operano cavie animali per sadismo: ma mentre i primi, che hanno vissuto in totale libertà prima dell’operazione e saranno accuditi dai propri cari al suo termine, si ristabiliranno e riprenderanno le loro normali attività, le cavie, che vengono da uno stabulario e non hanno mai respirato un giorno all’aperto, patiranno per quanto lo richiederà la durata della ricerca e infine verranno soppresse. Non esiste possibile parallelismo tra queste due condizioni.
E se la perfusione in vivo non comporta sofferenze per un animale ridotto allo stato larvale, lo stesso non si può dire di quegli studi che non prevedono la somministrazione di anestetico, che potrebbe compromettere i risultati dell’esperimento.

La libertà non è mai totale … Ma non mi è chiaro a cosa si riferisca esattamente l’autrice. Dalle operazioni chirurgiche ci si rimette, e sono svolte di solito con cura estrema perché l’animale si riprenda anche in fretta e bene. Il decorso post operatorio, salvo gli incidenti che come si è detto possono accadere, di solito è breve. Quanto allo stare all’aperto, confesso, trovo sia tanta retorica e basta; topi e ratti sono animali che stanno benissimo al chiuso, anche molte razze di gatti e cani domestici passano la maggior parte della propria vita se non tutta in appartamento. La sofferenza non è misurabile oggettivamente, ma per quanto ne sappiamo non è particolarmente alta, e per di più con le famose 3R viene continuamente ridotta, soprattutto attraverso il Refinement (molto più attraverso il Refinemente che attraverso il Replacement, a mio avviso). Quanto agli studi che non prevedono somministrazioni di anestetico, forse non è chiaro un aspetto: nessun’operazione chirurgica si può fare senza anestesia. È proprio impossibile all’atto pratico. Sono pochi i casi in cui non si può e non si deve applicare l’anestetico; più che altro quando non lo si applica è perché talora è più rischioso e stressante dell’esperimento stesso.

Quanto snobismo! Non è questione di “scocciarsi”: la casalinga e il postino non consultano le pagine di Pubmed con la stessa disinvoltura con cui può farlo uno scienziato.

Snobismo? Dopo l’antidemocrazia, come accusa ci mancava lo snobismo in effetti, un vecchio classico dell’antintellettualismo.

Mettiamola molto chiaramente: casalinga e postino hanno il diritto di dire la loro sulla sperimentazione animale. Ma per farlo devono informarsi. E informarsi richiede DAVVERO di studiare; non significa una laurea magari, ma significa entrare DENTRO la materia. Se la casalinga non vuole informarsi seriamente e coscienziosamente sulla questione sperimentazione animale, non ha alcun senso che si esprima sull’argomento, non è obbligatorio, può lasciar decidere a chi ha studiato che lo fa apposta per poi poter fornire la propria competenza. Ricordare l’importanza della conoscenza e delle decisioni informate adesso diventa snobismo? Un’accusa particolarmente difficile da sostenere soprattutto verso Pro-Test Italia, che si configura appunto come un’associazione che fa informazione sulla ricerca biomedica. Noi vogliamo una popolazione consapevole e in grado di scegliere. Ma se non sei consapevole e non hai intenzione di diventarlo, lascia decidere a chi ne sa di più. Il fatto che la letteratura di settore non sia alla portata di tutti è un bene, perché seleziona all’ingresso, ovvero fa sì che ad occuparsene sia solo chi sa quello che sta facendo. Casalinga, vuoi occuparti di legislazione ambientale? Impara a masticare la letteratura sul danno ambientale. Vuoi occuparti di sperimentazione animale? Impara a masticare la letteratura sulla ricerca biomedica.

Noi ti diamo una mano, se vuoi.

Come volevasi dimostrare: l’autore è rimasto fermo al ’75, anno in cui Singer pubblicava Animal Liberation. Siamo nel 2013, e dal momento che pressoché tutto l’antispecismo di seconda ondata prende le distanze dalla determinazione dello specismo come mero “pregiudizio morale”, forse sarebbe il caso di aggiornarsi.
Fra l’altro, nessuno dei due “grandi filosofi” chiamati in causa è singeriano, né parla mai di “illecito morale”.

Si direbbe che siamo di fronte ad una presa di distanza puramente nominale, se si va agli strati profondi. E si direbbe anche definitivamente spiegato il mio uso del “chiaramente” come a dire “qui ci sono dei passaggi banali sottointesi”, e perché l’autrice non lo condivide: la gente potrebbe essere invitata a controllare quali sono gli assunti sottointesi. Ne vedremo molti da qui in avanti, ad esempio: è sottointeso che sul rapporto uomo-animale viene posta dagli antispecisti la questione morale. Mi è capitato in passato di leggere giochi di prestigio tipo “no, è una questione politica”, salvo poi introdurre la questione morale in politica, o usare il termine politica come sinonimo di morale, in barba a Machiavelli. Il metodo è quello che spiegavo più sopra: enunciare una differenza o una precisazione che a conti fatti è superficiale o terminologica, contando sul fatto che in un sistema di pensiero appunto superficiale apparirà come una cosa di estrema importanza. Lo vedremo meglio fra poco.

Dato che condizione necessaria perché un confronto un filino sensato possa avvenire è la conoscenza delle motivazioni del pensiero che appartengono all’interlocutore, invitiamo chiunque desideri discettare di antispecismo a mettersi minimamente al corrente del dibattito contemporaneo, che ha quasi completamente abbandonato i lidi della filosofia analitica morale.
Chi scrive non ha certo Peter Singer tra i suoi riferimenti, ma quel filone teorico-politico che va da Rosa Luxemburg alla Scuola di Francoforte, riattualizzato soprattutto dall’antispecismo tedesco.

Cosa debba intendersi per “comunità allargata” non è affatto già deciso in partenza: se il motto marxiano “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni” può essere esteso anche agli altri animali, ciò non significa voler ignorare la limitatezza e la finitezza delle istituzioni umane, ma non fare del necessario riconoscimento di questo limite perpetua apologia dello stato di cose esistente.

Forse mi deriva dalla mia formazione scientifica, ma sono abituato a spremere i dati che ho a disposizione tirandone fuori ogni deduzione ed ipotesi rigorosamente implicata in essi, anche quando i dati possono sembrare scarsi. Altro aspetto che forse è deformazione da scienziato, la ricerca della semplicità in ogni esposizione, il ricorso alla complicazione solo come un’aggiunta chiarificatrice dei casi più controversi. Non dubito che decine di libri approfondiscano la “metafisica delle scimmie” (sic), ma se il pensiero dell’autrice o dei suoi ispiratori è davvero chiaro, lineare e coerente, anche una sola frase può consentire di dedurne, con un po’ di ragionamento, tutti i capisaldi e buona parte delle implicazioni. Non ho mai nominato Singer, ma va detto che il suo pensiero, sbagliato, è tuttavia coerente ed efficace, e da ogni sua parte può essere rigorosamente dedotto il resto. Se un sistema è coerente, questo è sempre possibile almeno per quanto riguarda gli aspetti fondamentali.

Ad esempio tantissimo si ricava, nel massimo rigore deduttivo, anche solo da quella sfortunatissima espressione, “privilegi grondanti di sangue” (d’ora in poi PGS) da “lasciar cadere” (dopo duecentomila anni passati per guadagnarseli, ci manca solo il lasciarli cadere…).

Cosa sono questi privilegi? Nella fattispecie, ciò che l’uomo fa all’atto pratico è usare le vite animali per il proprio vantaggio. Niente di più dunque di quello che fa ogni altro animale sulla faccia della terra. Questo è definito dagli autori un PGS, si direbbe. Siamo autorizzati a fare un passaggio banale e trarre da questa descrizione grandguignolesca una posizione riguardo alla liceità morale per sé dell’atto di privare della vita un animale? Se non facessimo una simile, pacifica deduzione, ci si potrebbe dare degli ottusi.

Se dunque ritengono che l’uomo abbia dei PGS da “lasciar cadere”, si intende che c’è qualcosa che accomuna tutti i privilegi umani o solo alcuni? Vogliono solo rinegoziare il benessere degli animali? Se il problema è che i PGS sono secondo loro in alcuni casi da rivedere, perché troppo crudeli o superflui o che so io, ricadiamo nel cosiddetto animal welfare; non hanno bisogno di definirsi specisti o antispecisti o transpecisti per questo, del benessere animale si discute continuamente. Se il problema dei PGS è invece qualcosa di proprio di tutti i privilegi umani, allora sicuramente c’è bisogno di consolidare questo approccio con un nome proprio, come “antispecismo”, ma cogliamo anche tutta la distruttiva problematicità di questo approccio: si pone infatti in questione la legittimità della possibilità che un animale si costruisca con le proprie forze un posto nella rete dei rapporti naturali. Ad esempio, la costruzione di ospedali per sé, e non per gli animali, costruiti sopra l’habitat degli animali, utilizzando tecniche mediche scoperte grazie alla sperimentazione su animali, inquinando il mondo degli animali con il suo riscaldamento e la sua elettricità, eccetera, è indubbiamente un PGS; dobbiamo lasciarlo cadere in quanto tale? E per di più, si pone questa questione SOLTANTO per l’uomo, e non per qualunque altro animale. Ovvero, anche i lupi devono lasciar cadere il PGS di vivere? Perché anche poter vivere, in realtà, è un PGS.

Che strada abbia deciso di imboccare l’autrice rispetto a queste obiezioni, perfettamente a luogo, la sappiamo: nessuna risposta nel merito, ma solo un certo snobismo (ebbene sì, anche noi possiamo usare questo termine) nel presentare i membri di Pro-Test e il sottoscritto come sostanzialmente troppo ignoranti per farci un discorso sensato. Eh, non sanno questi freddi scienziati antiumanisti tutte le meraviglie dell’antispecismo tedesco! Purtroppo in realtà abbiamo avuto modo di farcene un’idea, e abbiamo avuto anche modo di dedurre che, per tutta la parte di qualche interesse, porti nel DNA gli errori fondamentali, insanabili, “teologici”, ereditati pari pari dai genitori della “prima ondata”.
Qui si conclude la nostra disamina della risposta pubblicata su Asinus Novus. Per quelli di voi che si aspettano anche qui una bibliografia, vi deludo e vi conforto: questo articolo sta in piedi perfettamente da solo.

Alla prossima.

Alberto Ferrari (Neurobiologo del comitato scientifico di Pro-Test Italia)

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