Come funzionano le cellule staminali? Possono essere un’alternativa alla sperimentazione animale?
Grazie alle staminali riusciamo a ricostruire la pelle – anche aree molto vaste – degli ustionati, riusciamo a cambiare un midollo osseo malato con uno sano, riusciamo a far funzionare meglio i cuori di chi ha avuto un infarto, o anche a recuperare “per i capelli” chi ha avuto un danno troppo esteso per via dell’infarto, e le prospettive che questa ricerca ci sta aprendo hanno un che di miracoloso, che lascia a bocca aperta.
Ma cos’è una staminale?
Una cellula staminale è una cellula “non terminalmente differenziata”.
Cosa significa questo?
Le nostre cellule, tutte quelle di cui siamo composti, originano dall’ovulo fecondato, e cioè l’embrione: questo è una staminale totipotente, e cioè una staminale che può differenziare (che significa “dare origine”) a tutti i tessuti di cui l’organismo avrà bisogno, e anche alla placenta.
La cellula embrionale si divide per dare origine ad altre cellule uguali (e lo fa per molte volte dato che questo processo dovrà andare a formare tutti i 100.000 miliardi di cellule di cui siamo composti), e questo crea una formazione sempre più grande. Al sesto giorno dalla fecondazione l’embrione è diventato una piccola palla cava, di 64 cellule, chiamata blastocisti. Le cellule di questa non sono più totipotenti, ma pluripotenti: questo significa che possono dare origine a tutti i tessuti adulti, ma non alla placenta.
Man mano che la blastocisti aumenta di dimensioni, organizza le cellule di cui è composta in 3 strati, ognuno dei quali darà origine a tessuti differenti. Le cellule di ognuno di questi foglietti non possono dare origine a cellule degli altri foglietti, e per questo si chiamano staminali multipotenti.
Ognuna delle cellule di ogni foglietto si dividerà ancora, “maturerà”, e infine darà origine alla cellula “terminalmente differenziata”. Guardandovi allo specchio, tutto ciò che vedete sono cellule terminalmente differenziate, che vi tengono vitali perché possono assolvere alla loro funzione. Una cellula staminale, invece, non “funziona”, ovvero non assolve la funzione dell’organo in cui si svilupperà. Una staminale di cellule cutanee non assomiglia per nulla a una cellula della cute, e una staminale di cellula dello stomaco non secerne succhi gastrici.
Come avrete intuito guardandovi allo specchio, noi siamo MOLTO terminalmente differenziati. I mammiferi in generale lo sono parecchio, e potete quindi intuire che non sia tanto facile trovare una staminale in una persona come me o voi. Ci sono, a dire la verità, e in valore assoluto sono pure un numero piuttosto alto, ma l’1% di 100.000 miliardi è comunque un ago in un pagliaio.
Ciò non toglie che l’evidente potenziale delle staminali ha da sempre affascinato la scienza: dando i segnali giusti a una staminale, questa si divide e forma tessuti funzionanti, organizzati, utilizzabili: ma quanto è possibile indirizzare una staminale coi segnali giusti?
A questa domanda è stata data risposta con la sperimentazione animale.
In questo caso avviene principalmente in topi e ratti: non immaginatevi cani e gatti oltre quel “principalmente”, bensì planarie e salamandre.
La staminale più ricca di potenziale è ovviamente la totipotente, ma non ci interessa ricostruire placente e quindi si preferiscono le pluripotenti. Queste vengono isolate dalla blastocisti di cui vi parlavo prima, appartenente al ratto (anzi, alla rattina) di cui vi parlavo prima. Si possono isolare anche dalle cellule riproduttive del feto, e cioè del nostro topino o rattino che ancora deve nascere.
Ora, giusto per troncare illusioni sul nascere, il feto e la blastocisti vengono distrutti nel processo (non per cattiveria, è impossibile prelevare le cellule senza sacrificarli). Questo ci da un primo esempio di quanto le staminali NON siano un’alternativa alla sperimentazione animale. Ma andiamo avanti.
Le cellule si possono anche prelevare dai topi e dai ratti adulti: ci sono praticamente in tutti i tessuti, dal cuore alla pelle alle ossa (così come nell’uomo), e sono un po’ differenti da quelle che si prelevano dall’embrione: infatti queste non sono pluripotenti, ma di solito si possono differenziale in uno o pochi tipi cellulari diversi (sono multipotenti). Hanno un comportamento diverso rispetto a quelle embrionali, fanno – o non fanno – cose diverse e quindi vengono studiate separatamente.
Per isolarle, si preleva l’organo (o una parte di esso, e qui si lascia l’animale vivo) e si lavora sull’organo, che viene “sminuzzato” fino a riuscire a “pescare” le cellule che ci interessano con grande precisione.
Se invece da questi tessuti adulti abbiamo cercato di isolare delle cellule pluripotenti, la grande precisione di cui ci siamo avvalsi per “pescare” le multipotenti non è sufficienti, ma abbiamo bisogno di una verifica in più: dobbiamo vedere se queste cellule possono effettivamente dare origine a tutti i tessuti dell’adulto. Fra i test, c’è l’iniezione di parte delle cellule prelevate nel sottocute (sotto la pelle ma sopra i muscoli) di un topo senza sistema immunitario (questi topi non esistono per le campagne, sono creati apposta per il laboratorio): se tutto è andato bene, queste cellule si trasformeranno in un tumore, il teratoma, che assomiglia alla blastocisti.
Una volta che siamo certi di avere le cellule che volevamo, possiamo farle crescere, dividere e “maturare” (cioè differenziare) su una piastra da laboratorio. Lo stesso metodo che ci permette di “pescare” le cellule, ci permette anche di vedere se sembrano pronte e funzionali. Questa è una parte in vitro.
Supponiamo per esempio di volere delle cellule cardiache: non importa l’origine delle cellule – e cioè che siano state prelevate cellule pluripotenti o multipotenti-, perché ciò che vogliamo sono cellule del cuore, e siccome stiamo facendo ricerca non sappiamo quale tipo di staminale ci dia cellule del cuore migliori e più funzionali.
La funzionalità implica un network. Se la mia cellula funziona benissimo, ma non comunica con le altre cellule che ha vicino, e non riceve i segnali che vengono dai nervi, non fa ciò che gli ormoni le dicono di fare, sarà una cellula dannosa, o bene che vada inutile.
L’integrazione della cellula nel network che è il corpo è tutt’ora una verifica impossibile in vitro, e si ritorna al nostro topo o ratto.
In quest’altro topo o ratto è stato indotto un infarto (che non si fa mettendogli davanti un fantasma, ma legando una coronaria o altri metodi simili). Questo è attualmente il modello migliore per studiare l’integrazione funzionale delle cellule cardiache differenziate in vitro (d’altronde, io non riesco a immaginare un modo migliore di vedere se una cellula funziona che studiare la sua capacità di riparare a un danno), e al nostro topo infartuato (in tempi ben precisi dall’induzione dell’infarto) si iniettano le cellule ottenute. Poi, dopo un tempo definito, si sacrifica il topo e se ne studia il cuore.
Noi però non sappiamo quanto, di norma, si “infartua” un cuore di topo. Quindi, per avere un riferimento, abbiamo indotto un infarto anche a un altro topo, e non gli abbiamo iniettato nessuna cellula, e l’abbiamo sacrificato. Useremo il suo cuore come “paragone” per quello che abbiamo trattato, e chiameremo questo cuore “controllo”, perché ci serve appunto per controllare i dati.
Si studiano vari parametri, su questi cuori di topo: si vede se l’area dell’infarto è diminuita, se ci sono più proteine che fanno contrarre il muscolo, se ci sono abbastanza vasi sanguigni, se le cellule hanno forme strane che non sembrano essere funzionali, se fanno delle giunzioni con le cellule vicine o no… la lista è lunga, questo piccolo elenco è per dare un’idea.
Possiamo anche migliorare la performance della nostra cellula dandole dei piccoli input mentre è nel cuore, con delle molecole che stimolano la guarigione ad esempio.
Ci possono essere effetti collaterali molto grossi, anche in idee che sembrano promettenti. Ad esempio, le nostre cellule possono essere molto efficaci ma integrarsi poco con le cellule vicine, e questo non le fa contrarre insieme alle altre, causando una grave patologia chiamata aritmia. Oppure le cellule possono diventare troppo grandi e non riuscire a nutrirsi abbastanza dai vasi, e questo ci dice che la cura non è valida così come l’abbiamo pensata. Oppure si possono avere effetti molto lontani dal cuore, ad esempio un’attività di guarigione eccessiva può portare alla rottura della milza. Tutte queste cose non si possono vedere in una piastra, in vitro. Questi effetti collaterali sono palesemente imprevedibili.
Ma le cose non vanno sempre male, e si possono ottenere cellule (e cellule vuol dire protocolli, cioè metodiche rigorose da seguire per ottenere esattamente quelle cellule) che si differenziano proprio nelle cellule del cuore funzionali che volevo.
I protocolli per queste cellule possono essere adattati per ricrearle per l’uomo, e qui il test passa dall’animale alla fase “clinica”, e cioè alla fase di test sul paziente, e tutti noi possiamo infine beneficiare del successo della sperimentazione con staminali, nel caso ci venisse un infarto.
O ci ustionassimo. O sviluppassimo una leucemia. O avessimo una malattia infiammatoria cronica. O avessimo bisogno di un trapianto di midollo. O di organi. Oppure nel caso avessimo l’artrite, una necrosi, un infarto cerebrale, la cirrosi epatica, una pseudoartrosi, il diabete, o una lesione alla cartilagine del ginocchio.
Ricerca staminale: altro che alternativa cruelty free!
[Contributo di – Loreta Fasano]